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The Black Heart Procession

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Pall Jenkins, oscuro ed imponente, seduto, attacca i primi accordi di “The waiter”: è così che ha inizio un viaggio lungo atmosfere ed emozioni penetranti, dense e melliflue in cui i Black Heart Procession aprono il cammino e noi, spettatori in un Locomotiv Club saturo, li seguiamo attoniti, spesso ad occhi chiusi, immaginandoci in una torrida San Diego, una San Diego notturna ed estiva, pervasa dalle inquietudini (“The old kind of summer”).

Jenkins, Nathaniel e compagni si mostrano solidi e allo stesso tempo ondeggianti, i ritmi che disegnano sono monolitici, ma allo stesso tempo avvolgenti: “1”, suonato nella sua interezza, si conferma un disco di intensità rara, uno di quei dischi che segnano un’epoca, che fanno gridare al miracolo.

Sono trascorsi praticamente vent’anni dall’uscita e non ha perso un grammo della sua consistenza, anzi, è assurto al ruolo di classico per gli amanti dello slow-core e probabilmente del rock più in generale.

Pall Jenkins si nasconde dietro l’aria severa, rivendica le sue origini, si produce in invettive contro il presidente Trump, colpevole di dividere persone, fratelli, che sono cresciuti insieme (San Diego è a pochi chilometri dal confine messicano e lui è cresciuto con compagni e amici di cultura latina, che adesso un muro separerà…); è iconico e allo stesso tempo racconta la sua storia con una tale semplicità che istintivamente sai che ti sta dicendo realmente ciò che pensa e crede.

“The war is over” riscalda i cuori, così come “A cry for love” va a scandagliare la parte più intima, di quei cuori. Ripensandoci a mente fredda, è davvero difficile descrivere un così perfetto concentrato di poesia: è un po’ come essere stati in apnea per più di un’ora, in quel buio venato di blu che si trova sotto la superficie del mare. Poi si riemerge, purificati, estasiati, semplicemente consapevoli dell’esperienza appena vissuta. E felici di averla fatta.