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Recensione

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La leggenda dei King Crimson approda a Torino al GruVillage a seguito di un tour mondiale che li ha visti partecipare anche della “Baja Prog”, il più grande festival di rock progressive del mondo. L’arena della musica di Grugliasco non è completamente sold out, qua e la c’è qualche sedia vuota ma quelle occupate sono tutte riservate ad orecchie fini, musicisti e veri intenditori; notiamo, infatti, tra le prime file anche l’amico Roberto Gualdi della PFM.
Parliamoci chiaro, il postulato è che non sono i King Crimson, ma fa lo stesso, vederne tre della formazione originale è comunque un bel colpo.

Tony Levin e Adrian Belew entrano nei King Crimson nel 1981, Pat Mastelotto nel 1994. Levin e Mastelotto formano gli Stick Men nel 2009, Belew inaugura il suo Power Trio nel 2006. L’unione di queste forze permette la nascita della straordinaria formazione del Crimson ProjeKCt: sono, infatti, Levin, Mastelotto e Belew, che ancora oggi ne rappresentano il cuore pulsante, con il supporto dei tre straordinari artisti Markus Reuter, che ricopre il ruolo di Fripp con la sua incredibile e autocostruita Touch Guitar (Stick Men-Guitar Craft-Europa String Choir-Tim Bowness), Julie Slick, bassista solida, grintosa e molto tecnica (Adrian Belew Power Trio – Ike Willis/Napoleon Murphy dalle band di Zappa – Jon Anderson degli Yes, Stewart Copeland, Ann Wilson delle Heart – Alice Cooper) e Tobias Ralpah, batterista eclettico e funambolico che ha grande esperienza sia in studio che live (Adrian Belew Power Trio – Tricky – Defunkt – 24/7 Spyz – Nena – Paul Gilbert – Medicine Stick di Muzz Skillings dei Living Color – Plexus – Doop Troop di Joseph Bowie dei Defunkt).

I King Crimson, fondamentali per l’evoluzione del rock contemporaneo, pubblicano nel 1969 il leggendario “In the Court of the Crimson King”, 33 giri di esordio: quando ancora non esisteva il concetto di rock progressive loro ne sintetizzavano già l’essenza. The Crimson ProjeKCt è senza dubbio una diramazione dei King Crimson a cui manca però Robert Fripp.

Ma mentre il progetto King Crimson è in tour, Robert Fripp ne sente quasi la mancaza e di persona annuncia una nuova formazione dei King Crimson con tanto di lavoro in studio e tour escludendo Belew, che dispiaciuto scrive cosi direttamente sui social:

«Dopo trentadue anni, non farò più parte dei King Crimson, nessuno mi ha avvisato. Robert mi ha mandato una e-mail dove mi spiegava di aver riattivato il gruppo con una line-up di sette elementi. Mi ha detto che non sarei stato adatto a quello che il gruppo sta cercando di fare. Mi sento felice con le cose che mi rendono felice, che sono tante. Cosa volete che vi dica sulla nuova versione dei King Crimson? Il mio consiglio è di darle una possibilità, poi, nel caso dovessero piacervi, sosteneteli».

Ma torniamo al concerto della scorsa sera, ovviamente tante sorprese in serbo per gli spettatori, solo classici dei King Crimson.
Il loro è un concerto magico che attraversa i classici degli anni ’70 (“Red”, “Larks’ Tongues in Aspic Part II”, le pulsioni ritmiche degli anni ’80 (“Elephant Talk”, “Frame by Frame”, “Indiscipline”, “Thela Hun Ginjeet”, “Sleepless”), le sperimentazioni ricercate e nervose dei ’90 (“THRAK”, “B’Boom”, “VROOOM”)
I musicisti si incrociano sul palco varie volte ma in realtà sono due trii ben delineati, da una parte il Power Trio di Adrian Belew, con Julie Slick al basso e Tobias Ralph alla batteria e dall’altra gli Stick Men con Tony Levin al basso, Pat Mastelotto alla batteria e Markus Reuter alla Touch Guitar, che lui stesso ha disegnato, a cui sono affidate le parti chitarristiche prima eseguite da Robert Fripp. Mastelotto, invece, non si limiterà alla sola batteria acustica ma userà campioni elettronici per ampliare le possibilità sonore, in modo da sembrare spesso più di quanti siamo in realtà sul palco.
Il live inizia pochi minuti prima delle 22, sul palco dopo una breve intro assegnata ai due batteristi e al chitarrista Markus, entrano in scena il resto della formazione per dare un assaggio del sound pieno che riescono a creare. Proprio ai due batteristi è affidato il compito di dare sostanza e ritmo al suono, momenti all’unisono si alternano a momenti dove sembrano rincorrersi dando così volume e intensità alla ritmica su cui, poi, eccellenti passaggi di chitarra e basso ne completano il senso.
Sul palco gli artisti si divertono e trasmettono lo stesso divertimento e passione a chi è seduto ad ascoltarli; giocano tra di loro, si scambiano sorrisi e cenni di intesa, gli attacchi degli assoli sembrano venire naturali, come in un gioco dove nessuno vuole sovrastare sugli altri, scherzano con i fotografi e fanno parlare i loro strumenti, come un botta e risposta musicale.
Per il resto della serata si alternano sul palco prima un trio e poi un altro per lasciare spazio vitale ad entrambe le formazioni.
La scaletta del live, invece, è stata selezionata quasi interamente dal repertorio dei King Crimson, a parte qualche composizione originale di entrambi i gruppi e la sorpresa di Tony Levin che canta in italiano “L’abito della sposa” dall’album Macramè di Ivano Fossati, una delle sue tante collaborazioni; la super band con una perfezione quasi disumana, in fin dei conti, ha realizzato un insolito spettacolo dal vivo, quasi unico, per più di due ore e mezza di vero prog a cui gli appassionati non potevano assolutamente mancare.

Formazione
Adrian Belew – vocals, guitar
Tony Levin – chapman stick, bass guitar
Pat Mastelotto – drums
Markus Reuter – touch guitar
Julie Slick – bass guitar
Tobias Ralph – drums

Live report a cura di Marco Cometto

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Dall’ultima volta (la prima) che i Foals si sono esibiti a Milano sono passati ormai cinque anni e nel corso di questo non trascurabile arco temporale sono successe molte cose: il locale allora quasi deserto che li ha ospitati quando erano pressoché sconosciuti – il Rainbow Club – ha ormai chiuso i battenti;  nel frattempo la band di Oxford ha pubblicato altri due album dopo l’originale opera prima, “Antodotes”, ovvero “Total life forever” e “Holy Fire”.
Sebbene all’estero riempiano i palazzetti, ieri sera – in occasione della loro unica data italiana – Yannis Philippakis e soci si sono esibiti all’Alcatraz, location allestita ad hoc con solamente una parte aperta al pubblico, segno che i Folas in Italia non sono ancora apprezzati quanto meriterebbero. Esatto, perché la formazione britannica ha dimostrato ancora una volta di essere una realtà da palcoscenico, e di riuscire, live, a rendere il mille per cento.

L’apertura, dopo l’open-act dei No Ceremony, è avvenuta verso le 9 e mezza ed è stata affidata a “Prelude”, con l’ingresso dei nostri a scaglioni: Jimmy Smith ha calcato il palco per primo, seguito dal carismatico e riccioluto Yannis, e dai suoi altri tre colleghi. Uno strumentale lunghissimo e carico, ha così scaldato la folla che sul successivo brano, “Miami”, è esplosa in un’onda di entusiasmo e pogo. Il primo tangibile riscontro dei presenti però è avvenuto su “Olympic Airways”, estratto dal primo lavoro del quintetto britannico: i primi minuti di musica hanno fotografato la tendenza che poi ha pervaso l’intera set-list proposta, quella di una scaletta piuttosto eterogenea, impreziosita da brani estratti da tutti i dischi dati alle stampe dai cinque, ma soprattutto da quelli provenienti dal primo di questi.
Benché la forza del suono creato dai Foals sia percepibile anche dalle loro pubblicazioni di studio, è dal vivo che essi riescono a rappresentare al meglio la propria arte; infatti in un certo senso i loro brani acquistano ogni volta una nuova vita. Filtrati da indubbio talento e un’attitudine per certi versi quasi di genere punk (ma senza la carica auto-distruttiva che lo contraddistingue), e riproposti come se fossero del tutto differenti, i pezzi si trasformano in un mix unico di tecnica impeccabile e groove trascinante. “My number” ad esempio, sul palco è risultata più potente, tirata e ritmica. “Era molto che non tornavamo, è bello essere qui, dovremmo farlo un po’ più spesso”, ha in seguito annunciato il frontman, acclamato dal boato della folla.

Il brano più rappresentativo del secondo album della band, ovvero “Spanish Sahara”, viene solitamente  interpretato con una certa intensità, grazie ad una trama sonora che è un crescendo di suoni corposi ma delicati, e parole sussurrate: anche ieri così è stato, e la canzone si è trasformata in uno dei momenti più catartici e solenni della serata.
Jack Bevan è poi subito salito in piedi sulla batteria a scandire l’incipit di “Red socks pugie”, ma la parte più intensa del concerto è stata sicuramente l’esecuzione – accompagnata da Yannis che percuoteva forsennatamente il suo tamburo – di “Electric Bloom”, a chiusura della prima parte: la passione violenta con cui il cantante ha maneggiato le bacchette e ha fatto crowd-surfing si è dimostrata intensa quanto l’amore incondizionato provato in quel momento dal pubblico in sala, pervaso da otto minuti di pura energia musicale.
Dopo una breve pausa l’encore è arrivato con la potenza della recente “Inhaler”, seguita dalla chiusura del singolo “Two steps, twice”: il “po-po-ro-po-po-ro” dei cori è stato dilatato per l’occasione seguendo i movimenti dello scatenato Philippakis. Per lui c’è stato il tempo di arrivare al bar a bere uno shot e infine di attraversare la platea per poi tornare a stabilirsi sul palco a chiudere lo show.
Non si sa come ci riescano i Folas, ma ogni volta che si esibiscono lo fanno come se non esistesse un domani, e sicuramente questo è un ottimo punto a loro favore.

 

FOALS, 24 SETTEMBRE 2013 – ALCATRAZ MILANO, SETLIST:

Prelude
Miami
Olympic Airways
Blue Blood
My Number
Providence
Milk & Black Spiders
Spanish Sahara
Red Socks Pugie
Late Night
Electric Bloom 

Encore:

Inhaler
Two Steps, Twice

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Che Thom Yorke non fosse una persona ordinaria l’avevamo già intuito da tempo, ma ieri sera, sul palco milanese dell’Ippodromo del Galoppo ne abbiamo avuto la conferma: se i “terrestri” infatti, sono soliti coltivare hobby sportivi o decoupage, l’artista di Oxford – per trascorrere il tempo libero che l’impegno non indifferente coi Radiohead gli concede – preferisce dedicarsi a passatempi  un po’ meno gettonati, e ha pensato bene di mettere in piedi niente meno che agli Atoms For Peace.
La nuova creazione dell’eclettico autore britannico – senza dubbio uno dei più importanti degli ultimi vent’anni – è una costola dei suoi progetti paralleli senza esserne una copia o una derivazione. L’album d’esordi o “Amok”, dato alle stampe nel corso di questo 2013, è sicuramente valido e importante: lo ha potuto constatare dal vivo  il pubblico romano nella serata di martedì 16 luglio, e ne ha avuto la prova anche quello meneghino nel corso della serata successiva.

A scaldare l’entusiasta folla ci hanno pensato gli Owiny Sigoma Band, proponendo un repertorio coinvolgente ed eterogeneo. Dopo un breve set della formazione di apertura, verso le 21.30 i protagonisti della serata hanno fatto la loro acclamata comparsa: oltre ad uno scatenatissimo Yorke, Nigel Godrich (tastiere, chitarre e cori) il batterista Joey Waronker (collaboratore di R.E.M. e Beck) e il percussionista Mauro Refosco (Red Hot Chili Peppers, David Byrne e Bryan Eno), è stato Flea dei Red Hot Chili Peppers a tenere banco, con un basso importante tanto quanto la sua indubbia presenza scenica.
A “Before your very eyes” è toccato l’arduo compito di aprire la scaletta di un memorabile concerto, caratterizzato da brani tratti dal primo lavoro di questa eccellente formazione (“Ingenue” e “Amok” su tutti), ma anche da alcuni omaggi alla carriera solista di Thom Yorke ed al suo disco “The eraser”, datato 2006. Dopo pochi pezzi i maxi-schermi laterali sono stati oscurati, per dare spazio al solo palco e ai suoi eccellenti ospiti: in conclusione, sembra che il leader dei Radiohead si senta molto più alleggerito e divertito nei panni di frontman di un progetto discografico così recente ed ancora poco conosciuto. Possiamo dire però che la sagacia artistico-melodica è rimasta la stessa, così come l’entusiasmo e la volontà di combinare alla perfezione elettronica e rock senza mai cadere nel banale, e sicuramente chi era presente ha potuto rendersene conto.

Atoms for peace – Setlist 17 luglio 2013: Milano, Ippodromo del galoppo

 

BEFORE YOUR VERY EYES

DEFAULT

THE CLOCK

INGENUE

STUCK TOGETHER PIECES

UNLESS

AND IT RAINED ALL NIGHT

HARROWDOWN HILL

DROPPED

CYMBAL RUSH

………………..

HALLOW HEART

FEELING PULLED APART

THE ERASER

AMOK

—————-

ATOMS FOR PEACE

BLACK SWAN

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Dopo un’affollatissima prima serata, che ha visto un Magnolia sold-out ospitare sul palco Lumineers e Daughters, ieri a Segrate (MI) si è svolta la seconda parte della manifestazione Unaltrofestival. Questo nuovo evento dell’estate italiana potrebbe con tutta probabilità tornare anche l’anno prossimo, dato il riscontro positivo che ha raccolto: mercoledì 10 luglio è stata la volta di Tame Impala, la cui performance è stata anticipata da numerosi e validi gruppi.
Sui due stage una ricca line-up ha dato spazio a Hot Gossip, Orange, Melody’S Echo Chamber, Deap Vally e Local Natives (che sono stati aggiunti al cartellone solo pochi giorni fa): la percezione dei presenti, o almeno di alcuni di loro, è stata quella di partecipare ad un festival di stampo europeo, sia per l’atmosfera che si è creata, che per l’elevata qualità artistica delle band che si sono alternate.

Nonostante qualche goccia di pioggia tutto è andato per il meglio, e a farci rivivere la mitica Summer of Love almeno per qualche ora, anche sotto il cielo imbronciato di Milano, ci hanno pensato Kevin Parker e i suoi. I Tame Impala infatti hanno calcato il palco poco prima delle 11, e hanno regalato al folto pubblico un live degno di questo nome, della durata totale di circa un’ora e mezza.
La formazione di Perth – che si è fatta conoscere in tutto il mondo soprattutto grazie al successo del visionario secondo disco dato alle stampe nel 2012, “Lonerism” – ha dato vita ad un lungo salto di un’ora e mezza nell’arte e nella cultura degli anni ’60-’70, in pieno stile onirico alla Flower Power, tra colori fluo e chitarre distorte.

I momenti più sentiti della serata – caratterizzata dall’impeccabile riproduzione di alcuni brani tratti dal primo album “Innerspeaker”, oltre che da molti pezzi estratti dal lavoro più recente – sono stati sicuramente le esecuzioni dei singoli “Elephant” e “Feels like we only go backwards”.
I nostralgici di Syd Barret e Led Zeppelin dunque hanno nuovamente  trovato pane per i loro denti: e chi avrebbe mai immaginato che questa nuova ondata musicale, perfetto mix di vintage-rock e psichedelia degli anni 2000, potesse provenire proprio dall’Australia?