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Milano

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Unica data italiana per LP, Laura Pergolizzi, la cantante statunitense che ha fatto impazzire l’Italia con “Lost on you” la scorsa estate.
Giovedì sera si è esibita con la sua band sul palco dei magazzini generali, mostrando il suo disco in uscita il prossimo 9 dicembre e annunciando che tornerà in Italia il prossimo marzo 2017
Durante “Other People” il pubblico ha creato una coreografia di bolle che ha invaso il club. LP ha più volte ringraziato in modo molto sincero.
Oltre ai suoi brani ha cantato la cover di “Halo” durante la quale è anche scesa dal palco e si è sporta facendosi abbracciare dal suo pubblico.
Anche quando il concerto sembrava finito la cantante è tornata sul palco per salutare con “Switchblade” e con il bis di “Lost on you”.

Ecco una gallery della serata a cura di Pamela Rovaris.

 

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Nicolas Jaar live @ Alcatraz, Milano.
La photogallery della serata del 24 novembre 2016:

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I Wilco decidono di aprire il loro concerto milanese sul palco del Fabrique, omaggiando le ceneri delle bandiere americane, viste le circostanze (Ashes of American Flags). Cappello da cowboy, maglietta a righe, giubbino di jeans e pancia, Jeff Tweedy come sempre ha l’aria dell’americano medio, uno di quelli che alle recenti elezioni ha combinato il pasticciaccio che condizionerà i destini del mondo intero nei prossimi quattro anni. E invece è, al contrario, un essere tutt’altro che ordinario, e chi riempie la sala stasera lo sa bene e non a caso urla il suo nome già dall’inizio.

Ho sempre avuto paura di essere un normale ragazzo americano, canta in Normal American Kids, e invece è riuscito a benissimo a sfuggire a tale maledizione. Un’ apertura scarna e acustica, come lo è l’ultimo straordinario lavoro Schmilco, appena sporcata dai suoni elettrici dei fedeli compagni di band.
Inutile piangersi addosso (Cry All Day) in un momento come questo, Jeff è qui per rassicurarci con tutto il fare bonario di cui è capace. Dice che andrà tutto bene, We’re gonna be alright, che siamo in lutto ma assieme avremo la forza per elaborarlo perché siamo e saremo sempre più di loro, e così la bellezza, che non scomparirà.
Lui lo dice e tu stavolta ci credi sul serio. Quello che sorprende sempre, nonostante l’abitudine, è l’estrema naturalezza con cui in più di vent’anni, i cinque americani  riescono a fare tutto quello che fanno, sia su disco che dal vivo.
Il palco è un bosco e i Wilco suonano tra le fronde per due ore, con una scaletta che è un’ulteriore dimostrazione di intelligenza. Ai momenti più intimi e puliti (Misunderstood, Someone to Lose) si alternano le sperimentazioni di brani quali Art of AlmostI Am Trying to Break Your Heart, che permettono anche al batterista Glenn Kotche e al formidabile Nels Cline di mostrare tutta la loro maestria.
La verità è che, anche se poteva sembrare che con il precedente lavoro Star Wars la band di Chicago avesse avuto una piccola battuta d’arresto, non è mai stato così e i ragazzacci sono più forti di prima.
Dopo i classici Via Chicago e Impossible Germany arriva il momento Jesus, etc. a far sognare la sala e a ricordare che nel nostro mondo esistono brutture come Trump ma anche cose belle e perfette come quel disco che è Yankee Hotel Foxtrot.
Si torna sull’attualità, Tweedy spiega che ora più che mai in America la gente si guarda in faccia chiedendosi che fare e questo in qualche modo è un dato positivo. Poi si riprende a suonare ancora per un po’, con tanto di doppio bis e la platea che non smette di partecipare (canticchiando Spiders). Cline passa alla slide, si torna ai ritmi soft e si conclude al meglio con un’ultima ondata di calore.
I Wilco sono più che una certezza, e se Jeff Tweedy era qui con l’intento di rassicurarci ci è riuscito eccome. Si torna a casa carichi di energia positiva. Certi che, per quando le cose siano difficili, fino a che esiste chi come loro prosegue dritto su un cammino fatto di coerenza e bellezza e ha per fortuna deciso di condividerlo, saremo in qualche modo salvi.

SETLIST
Ashes of American Flags
Normal American Kids
If I Ever Was A Child
Cry All Day
I Am Trying to Break Your Heart
Art of Almost
Pickled Ginger
Misunderstood
Someone to Lose
Via Chicago
Reservations
Impossible Germany
Jesus, etc.
Locator
We Aren’t The World
Box Full Of Letters
Heavy Metal Drummer
I’m The Man Who Loves You
Hummingbird
The Late Greats

Random Name Generator
Spiders (Kidsmoke)

California Stars
War on War
Shot In The Arm

 

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Un nome, ma al plurale. Un gruppo, ma ne contiene almeno tre. Un solo album, ma anni di esperienza alle spalle.
Dei Minor Victories se ne è parlato già molto, il loro omonimo album di debutto è stato accolto a braccia aperte dalla critica e soprattutto dai fan. Ma ora sono alle prese con il primo tour e chi sono davvero i Minor Victories?
I numerosi ragazzi presenti il 24 ottobre al Santeria Social Club di Milano sanno bene chi hanno di fronte, o almeno, chi dovrebbe esserci:  Stuart Braithwaite, caposaldo dei Mogwai alla chitarra, Rachel Goswell, la voce degli Slowdive dalla brillante e calorosa presenza al centro del palco, James Lockey, musicista e filmmaker al basso, due presenze dall’ignoto nome ma dall’indubbio talento alla tastiera e alla batteria. E Justin Lockey dall’ultima formazione degli Editors ideatore del progetto..? Dov’è?
Non ci è dato da sapere e nessuno lo chiede.
I cinque musicisti vengono accolti calorosamente, la canzone d’apertura del concerto coincide con quella dell’album. Give Up The Ghost è il miglior biglietto da visita che un gruppo possa desiderare: con andamento lento ma incalzante, la voce di Rachel che culla per tutto il tempo mentre ci si immerge in suoni a volte graffianti, a volte violenti. Ma è in The Thief che arriva il primo grande muro di suono, i riverberi della voce sono inondati dall’esplosione strumentale. Ancora storditi ci si tuffa nella romantica atmosfera dark di A Hundred Ropes, ma peccato che per questo pezzo non siano stati veri violini a fare da protagonisti sul palco.
Il live prosegue per circa 50 minuti, alternando così momenti di magici riverberi a cielo aperto a quelli di un rock più deciso e tenebroso. Sembra che non manchi nulla, a parte un po’ di voce della protagonista, che viene troppo spesso (facilmente) sovrastata dagli strumenti. Tutte le canzoni dell’album sono in scaletta, a parte una, la più sofisticata e minimalista For You Always, forse perché ne manca il principale autore e interprete Mark Kozelek, che ha straordinariamente collaborato con la band. Sul megaschermo che fa da sfondo slittano le immagini dei principali simboli del neogruppo: i cubi in 3D della croce in copertina sull’album e il gattino dallo sguardo laser assassino, ma dov’è quell’immaginario di luoghi e persone che ci hanno tanto fatto innamorare dei loro videoclip?
Insomma tutto bello, tutti felici, tanti complimenti e tanto calore, ma un po’ troppi “se” e troppi “ma” sono sorti quando ci si è fermati a riflettere sulla sostanza portata sul palco di tutto questo assordante e conturbante mondo onirico. Sembrerebbe che in tour stiano portando piuttosto il loro nome e il loro merchandising.
Quando ci si trova davanti a dei nomi che vengono immolati così sull’altare del rock le aspettative crescono, i prezzi dei biglietti al concerto aumentano e le voci cominciano a girare.
Ma prima di permetterci di esprimere un parere negativo preferiamo stare a guardare cosa succede.
Perché che non sia finita qui lo sapevamo ancor prima di recarci al concerto: poche ore prima il gruppo ha annunciato l’arrivo ad anno nuovo dell’album Orchestral Variations che contiene una serie di reinterpretazioni strumentali delle canzoni contenute in Minor Victories. Aspetteremo curiosi non solo questo album, ma anche il prossimo tour.

SETLIST:
Give Up The Ghost
The Thief
A Hundred Ropes
Cogs
Breaking My Light
Folk Arp
Scattered Ashes
Higher Hopes
Out To Sea

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Stavolta a decidere di aprire il loro tour dall’Italia sono i The Veils, che scelgono il palco del Serraglio per presentare l’ultimo lavoro Total Depravity. Il quinto disco della band, uscito il 26 agosto, è strabiliante da diversi punti di vista. Composto quasi interamente in una stanza buia e poco aerata dell’East London (poi registrato in più luoghi, tra cui Casa Lynch), è un disco claustrofobico, cupo e disturbante e dal vivo la formazione australiana riesce a renderlo in tutta la sua pienezza.
Si parte con la perfezione totale di Here Comes The Dead e Axoloti ed è subito chiaro che il concerto proseguirà senza la minima sbavatura fino all’ultima canzone. Finn Andrews saluta e ringrazia. Con l’immancabile cappello nero a tesa larga, in scena è una strana creatura a metà tra la versione migliore del David Byrne predicatore allucinato e l’essere più pacato del mondo. La sua voce talmente perfetta da sembrare aliena porta in vita le storie degli stani personaggi che popolano il disco (Low Lays The Devil e Swimming With Crocodiles). Ecco arrivare la prima delle incursioni dei brani tratti da Nux Vomica, secondo album della band, datato 2006: la title track regala il primo vero momento sporco della serata, con la voce di Andrews che si spezza e l’andamento che si fa dapprima sincopato per poi esplodere a più riprese.
Si tratta di una serata speciale, spiega, la prima in cui suoniamo di nuovo assieme dopo un po’ di tempo. L’escalation claustrofobica e strisciante prosegue e trova il primo apice con l’esecuzione di Total Depravity, l’episodio decisamente più new wave di tutto il disco che dal vivo riesce ad essere ancora più disturbato. D’altronde la Depravazione Totale ha a che fare con il vizio che corrompe la natura umana, condizione da cui Andrews sembra oggi più che mai essere affascinato.
C’è spazio per brani più convenzionali (Lodin & Iron, Not Yet) prima della lisergica King of Chrome, racconto nero con protagonista un camionista psicopatico, narrato con il tono di un sermone per comunicarci chissà quale inquietante morale.
Il gruppo esce di scena e poco dopo il frontman rientra da solo, per regalare un momento più intimo con tanto di brano a richiesta dal pubblico che prova ad eseguire nonostante non lo ricordi bene (ero davvero giovane quando l’ho scritto). Recuperati gli altri, ci si avvia verso la conclusione che diventa definitiva con Jesus For The Jugular (sempre da Nux Vomica). Un lampo di luce rossa riempie la stanza, acceca i presenti poi si spegne e il palco è vuoto: degna conclusione di un live allucinato e allo stesso tempo raffinatissimo.
Non sappiamo mai bene cosa andremo a suonare, facciamo una manciata di cose sperando vada per il meglio, aveva detto poco prima di salutare. E per il meglio è andata, decisamente.


 

SETLIST:

Here Come The Dead
Axoloti
Do Your Bones Glow at Night
Low Lays The Devil
Swimming With The Crocodiles
Nux Vomica
House of Spirits
The Pearl
A Bit on The Side
Total Depravity
Lodin & Iron
Not Yet
King of Chrome

The Tide That Left & Never Came Back
In The Nightfall
Advice for Young Mothers to Be
Calliope!
Jesus For The Jugular

Minor Victories 2016, Ph. Ryan Johnston
Minor Victories 2016, Ph. Ryan Johnston
Minor Victories 2016, Ph. Ryan Johnston

E se il leader dei fascinosi Mogwai, il chitarrista degli ormai affermatissimi Editors e la voce eterea degli Slowdive decidessero di avventurarsi insieme in un nuovo progetto musicale?

I primi a sorprendersi di tale domanda sono gli stessi componenti del neonato gruppo:  Stuart Braithwaite (Mogwai), Rachel Goswell (Slowdive), Justin Lockey (Editors) e suo fratello James non si erano mai incontrati prima di iniziare questo esperimento l’anno scorso. Ma il risultato è stato folgorante. E’ una perfetta sinergia rock quella che si è venuta a creare nel loro omonimo album di debutto Minor Victories, pubblicato a giugno.

Per chi fosse interessato a testimoniare di tale forza, equilibrio, consapevolezza artistica e, senz’altro, talento, l’appuntamento è il 24 ottobre 2016 a Milano, presso Santeria Social Club, unica data italiana del tour autunnale i cui biglietti sono già disponibili in prevendita online.

Irresistibili come questo gattino..

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Apparat

Dopo i sold out in tutta Europa del progetto Moderat, insieme agli amici Modeselektor, il berlinese Sascha Ring, meglio conosciuto come Apparat, torna in Italia per 3 date:

07 ottobre 2016, Roma, Ex Caserma Guido Reni

08 ottobre 2016, Porto Sant’Elpidio, Harmonized Club

15 ottobre 2016, Milano, Dude Club

Si tratta di 3 dj-set che dureranno tutta la notte, per farci ballare ed emozionare sul dancefloor come pochi maestri del suo calibro sanno fare. Dalle prime collaborazioni con John Peel e Ellen Allien, Apparat accresce e affina il suo stile, sempre più libero dai limiti e rigori di una categoria musicale, in questo caso la techno, “disegna i suoni” restituendo espressività alla musica elettronica, diventando uno dei producer più influenti della scena contemporanea fino a farsi desiderare anche in Italia, dai Giardini Di Mirò e Gianna Nannini.
Saranno tre lunghe notti da non perdersi per chi vuole conoscere un po’ più da vicino questo artista del beat.

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Kristian Matsson, il cantautore tascabile più alto sulla terra, ripassa dall’Italia, più precisamente sul palco del Fabrique di Milano, dopo l’improvviso scambio di location (precedentemente era stato annunciato al teatro Franco Parenti). Per aprire la serata, sceglie il connazionale e amico fraterno The Tarantula Waltz, all’anagrafe Markus Svensson. Un songwriter tra i tanti, si esibisce sul palco chitarra e voce e nonostante sia capace, fa pensare a quanto la svolta elettrica di Dylan a Newport cinquant’anni fa sia stata sacrosanta per salvarci dalla noia mortale del folk nudo e crudo, monotono e trascurabile.

La storia cambia quando sulla scena compare lui, Kristian Matsson, per tutti The Tallest Man on Heart da quando, nel 2006 pubblica il primo ep omonimo.
È piccolo e a fargli compagnia c’è solo il suo strumento, ma riempie perfettamente la scena con la sua sola presenza e di spazio libero non ne resta. Le suggestioni, i ritmi e le parole sono fragili eppure riesce ad essere incredibilmente maestoso. Apre lo show con East Virginia, traditional cantato anche da Joan Baez, tanto per mettere in chiaro le cose: anima, talento, folk e nient’altro.
Una passione feticista per le chitarre che cambia di canzone in canzone, plettri lanciati in aria che piovono come fossero coriandoli. Fields of Our Home dall’ultimo lavoro Dark Bird Is Home a cui seguono due brani dell’apprezzatissimo There’s No Leaving Now, datato 2012: suona sulle punte, si muove con la stessa grazia che pervade le sue canzoni. La voce è potentissima e a tratti nasale, proprio come quella di Dylan, giusto perché sfuggire al suo fantasma quando si decide di essere un folk-singer di questo tipo è praticamente impossibile.
La sala non è completa ma il pubblico è di affezionati veri e il calore si sente anche se lo stato è piuttosto contemplativo perché, davvero, non c’è bisogno di fare nulla. Solo guardarlo e lasciarsi trasportare dalla bellezza dell’esecuzione di pezzi quali I Won’t Be Found e Little Nowere Towns. L’età del pubblico è varia e può succedere che un ottantenne chieda timidamente agli uomini della security di poter oltrepassare un attimo le transenne per scattare qualche fotografia da tenere come ricordo.
Il menestrello intanto sorride e ringrazia a più riprese, poi racconta un aneddoto su un gruppo di fans che tempo fa ha invaso la sua proprietà nelle campagne svedesi. I’m a friendly guy but just don’t go to my house, o prima almeno avvertitemi, scherza per introdurre il recente singolo Rivers, che di paesaggi bucolici narra.
Dice di non aver scelto con cura per il pubblico milanese le sue chitarre più silenziose, sapendolo atto all’ascolto, poi si siede alla tastiera. Lo spettacolo prosegue con un’atmosfera sempre più raccolta che conduce alla parte finale del set che è un alternarsi di ballate soft (Time Of The Blue, There’s no Leaving Now) ed episodi coinvolgenti che chiamano il battito collettivo di mani (King of Spain). Fino all’ultimo dà tutto quello che ha, saltella si siede e si rialza, gioca con gli strumenti.
Si chiude con Dark Bird Is Home: I thought that this would last for a million years/ But now I need to go / Oh, fuck. Finale teatrale e perfetto, non fosse che il pubblico lo acclama e lui torna in scena per altri due brani. Si dice stanco della propria tristezza e per Il saluto definitivo sceglie quella di qualcun altro (quella scritta da Jackson Browne e cantata per prima da Nico, nello specifico) per una versione splendida di These Days, con tanto di chitarra small size color oro. La serata è finita e il piccolo principe del folk ha davvero lasciato il segno.

 

SETLIST:

East Virginia 

Fields of Our Home

1904

Criminals

The Wild Hunt

Darkness Of The Dream

I Won’t Be Found

The Gardener

Little Nowhere Towns

Love Is All

Rivers

The Sparrow & The Medicine

On Every Page

Time Of The Blue

There’s No Leaving Now

King of Spain

Dark is Bird Home

Sagres

These Days (Jackson Browne)


[Report: Laura Antonioli   –   Photo: Francesca Di Vaio]

 

Già all’ingresso del Serraglio, il colpo d’occhio è notevole, c’è tanta, tantissima gente. Avvicinando la lente d’ingrandimento, si vede un po’ di tutto, il pubblico che ti aspetti e quello che ti sorprende. Ci sono i ventenni dark dalla testa ai piedi con la loro t-shirt di Unknown Pleasures comprata in qualche negozietto di Londra o Berlino, ci sono trentenni un po’ più convenzionali, anche loro con la stessa maglietta presa però da H&M e parecchi cinquantenni in giacca e cravatta che sembrano arrivati direttamente da una giornata d’ufficio durata più del previsto. È bello pensare che nel concerto che sta per iniziare ognuno potrà trovare proprio quello che è venuto con l’idea di portarsi a casa.
Peter Hook sale sul palco puntualissimo, alle 21:20 per la prima parte della serata, quella che prevede una manciata di brani dei New Order. Set breve ma intenso finalizzato al riscaldamento preliminare degli animi, che vede il primo apice già dopo una ventina di minuti, con l’arrivo di Ceremony, che sembra essere il primo vero momento di emozione pura per la sala (che intanto non smette di riempirsi) e per lui stesso in primis.
Tutti nel cortile esterno per una breve pausa sigaretta e i primi scambi di opinioni e poi di nuovo dentro perché la vera festa sta per iniziare: A Joy Division Celebration. Qualcuno bisbiglia qualcosa, pare che Hook abbia tirato una riga con il pennarello sul primo brano in scaletta (Atmosphere), ma in fondo il padrone della festa è lui e con la musica che gli appartiene può fare come gli pare. La tentazione di chiamare i brani preferiti come con un juke box dal vivo è forte, soprattutto per la parte più giovane del pubblico, e del tutto comprensibile. Ma Peter Hook & The Light è un’altra cosa, ha un carattere ben definito: quello di Hook stesso che, tra una posa da bullo e l’altra, suona e canta (con voce non potentissima, va detto) i brani della storia musicale di cui è stato parte, senza cadere nel sentimentalismo e senza perdersi in chiacchiere. Il live procede, pulito, forse anche troppo un po’ uguale a se stesso, ma il pubblico pare apprezzare. Isolation, Colony, Heart and Soul, Twenty Four hours e Decades, e la bellezza senza tempo di Closer vola via in un soffio. C’è spazio anche per un piccolo bisticcio con un ragazzo del pubblico che, a quanto pare, parla un po’ troppo, ma c’è sempre qualcuno a cui sfugge la sacralità intrinseca che ogni celebrazione porta con sé.
Altra pausa veloce, secondo scambio di opinioni, tra qualche superlativo e qualche sbuffo, e si riparte con Unknown Pleasures. Se tutte quelle magliette, mosse dal vibrare delle corde di basso, avessero potuto prendere vita, l’avrebbero fatto, forse con Disorder, sicuramente con Shadowplay e She’s Lost Control causando qualche piccola scossa, mettendo a rischio la stabilità dell’edificio.
Forse se in sala non ci fosse stato l’equivalente di 130 gradi fahrenheit (che gli hanno causato un piccolo momento di annebbiamento poi subito rientrato) Peter Hook e la sua band avrebbero continuato a suonare per altre due ore e mezza. O forse no, in fondo dopo una Love Will Tear Us Apart riportata in vita e la sua maglietta zuppa di sudore concessa in regalo, cosa si sarebbe potuto chiedere d’altro?
Pragmatico, professionale, appassionato (a suo modo) Peter Hook ha indossato i panni da maestro di cerimonia com’era giusto che fosse. Inutile dire che l’altro nome (si, quel nome che inizia con la I e finisce con an) è volato nell’aria più volte, ma ognuna delle persone che l’ha invocato l’ha fatto conscia del fatto che forse, al sogno irrealizzabile, è meglio preferire la realtà così com’è.

SETLIST:

  1. In a Lonely Place
  2. ICB
  3. Lonesome Tonight
  4. The Him
  5. Way of Life
  6. Sunrise
  7. Ceremony
  8. Digital
  9. Atrocity Exhibition
  10. Isolation
  11. Passover
  12. Colony
  13. A Means to An End
  14. Heart & Soul
  15. Twenty Four Hours
  16. The Eternal
  17. Decades
  18. Disorder
  19. Day of The Lords
  20. Candidate
  21. Insigth
  22. New Dawn Fades
  23. She’s Lost Control
  24. Shadowplay
  25. Wilderness
  26. Interzone
  27. I Remember Nothing
  28. Dead Souls
  29. Transmission
  30. Love Will Tear us Apart

Report Laura Antonioli, Foto Francesca Di Vaio

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Oggi sono stati protagonisti di un’attesissima conferenza stampa all’interno dello Stadio di San Siro per presentare i due concerti che si svolgeranno a giugno proprio all’interno dello stadio milanese: stiamo parlando dei Modà che questa mattina hanno presentato i prossimi concerti che li porteranno ancora una volta, a due anni dall’ultima volta, a esibirsi in una delle cornici più ambite per ogni cantante e band italiana.

I biglietti sono in vendita da oramai molti mesi e i fans dei Modà non aspettano altro dalla scorsa estate, ma finalmente il conteggio alla rovescia sta giungendo alla fine: mancano oramai pochissimi giorni ai due concerti che a giugno riporteranno la band di Kekko a esibirsi live, sull’onda dell’enorme successo che sta riscuotendo il loro ultimo progetto discografico, Passione Maledetta, certificato proprio in questi giorni triplo platino con oltre 150mila copie vendute.

Sono stati resi oggi ufficiali anche i due ospiti che saliranno sul palco con la band. Sul palco di San Siro, il giorno della seconda data saranno ospiti i Pooh, che proprio quest’anno festeggiano i loro cinquant’anni di carriera (e che tra l’altro saranno protagonisti di due attesissimi concerti evento nello stadio milanese solo una settimana prima dei Modà). Un’ospitata nata contestualmente alla partecipazione della giovane band di Kekko allo special che la Rai ha voluto dedicare ai Pooh lo scorso 11 marzo. “Suoneremo gli strumenti come se fossimo la loro band, ma non sarà un passaggio di consegne” hanno dichiarato i ragazzi, anticipando anche che insieme alla band di Roby Facchinetti, Red Canzian, Dodi Battaglia, Stefano D’Orazio e Riccardo Fogli (che per l’occasione si presenteranno eccezionalmente sul palco senza strumenti, con i soli microfoni) condivideranno il palco per oltre 15 minuti. Una grande occasione che i Modà hanno definito tanto speciale da essere paragonata alla possibilità di giocare a calcio con Maradona!

Nel terzo concerto previsto per questa estate, presso l’Arena Sant’Elia di Cagliari i Modà avranno un’altro ospite: si tratta dei Tazenda, insieme ai quali Kekko ha dichiarato di voler eseguire alcuni brani del loro repertorio, visto che il concerto si terrà proprio nella loro terra natia.

Un’altra sorpresa è stata fatta ai fans questa mattina: tramite twitter, la band ha svelato in anteprima anche il palco che ospiterà i due concerti milanesi; Kekko ne ha cosi parlato: “Sono molto all’antica per quanto riguarda il palco ho chiesto la passerella che va in mezzo ai miei fan”.

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Fonte: Twitter @rockmoda

I fans si devono aspettare quindi un grande concerto dalle grandi emozioni: la band ha dichiarato che i concerti convergeranno principalmente sui brani contenuti negli ultimi tre progetti discografici della band, con ovviamente qualche tuffo nel passato.

Queste le tappe per ora confermate dalla band per questa estate:

Sabato 18 giugno 2016: Stadio San Siro, Milano, ore 21;
Domenica 19 giugno 2016: Stadio San Siro, Milano, ore 21;
Sabato 25 giugno 2016: Arena Sant’Elia, Cagliari, ore 21.

I biglietti per i tre concerti sono ancora disponibili presso il circuito Ticketone.

 

L’immagine dei Modà all’interno dello Stadio di San Siro è tratta dalla pagina Facebook ufficiale della band.