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live report

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Si può esser artiste donne (e quindi minoranza) anche senza fare troppi proclami e ribadirlo ogni volta. Basta portare sul palco e mettere nella propria arte tutta la femminilità di cui si è capaci. Angel Olsen lo fa.

Fasciata in una tutina gessata, zatteroni e capelli raccolti, sale sul palco di una Salumeria Della Musica sold out. Viste le temperature, la stagione dei concerti al chiuso dovrebbe essere finita. Ma per una delle due sole date nel nostro paese della cantautrice di St. Louis (dopo quella al Covo di Bologna) ci si sacrifica felici. Angel sale sul palco per cantare se stessa e il suo essere donna. My Woman, il suo ultimo lavoro è uscito a fine 2016 per Jagjaguwar, segnandone la consacrazione definitiva.

Partenza soft con Heart Shaped Face, Angel sorride ai fotografi in prima fila, spensierata e ammiccante. La sua voce perfetta e l’altrettanto perfetta band che l’accompagna da inizio a un’ora e mezza di live intenso e pregno di autenticità. Fare i musicisti è un lavoro vero, non un passatempo, e le star internazionali che ci graziano della loro presenza nel nostro Paese ce lo ricordano come si deve.

I brani di My Woman ci sono quasi tutti (Shut up kiss me, Sister, Not Gonna Kill You) e si alternano con qualche canzone del precedente Burn Your Fire for No Witness (Unfucktheworld, Windows). Classe da vendere, tecnica consolidata e una presenza unica: non serve altro per garantire un live d’impatto.

Parte della stampa in questi anni ha deciso per lei che dovesse essere un cantautrice folk depressa ed eccessivamente introspettiva, una donna triste e complessata. Angel ha risposto con un disco che l’ha portata ad avvicinarsi al rock classico con qualche virata pop. Sul palco tutte questi elementi si mischiano con disarmante naturalezza.

Fa caldo, troppo caldo, ma nessuna delle persone in sala vorrebbe andarsene. Those Were the Days, Woman e una versione nuda e cruda di Acrobat (contenuta nell’ep di debutto) aprono la terza e ultima parte della serata. Angel chiede se qualcuno ha una casa con piscina in cui ci si possa tuffare tutti assieme di li a poco. Sarebbe bello, come bello è stato poter vedere una cantautrice come lei spogliarsi, metaforicamente parlando, e regalare al pubblico la sua essenza più profonda. Ma con leggerezza e disinvoltura.

In apertura, il set “breve ma dolce” dell’australiano Alex Cameron. Tra elettronica anni ’80 e pop glitterato, il suo alter ego è un entertainer fallito che si muove goffo su un sottofondo di sax e percussioni, e sogna di essere Marlon Brando. L’obbiettivo di Cameron è quello di esplorare il fallimento in musica. Il suo primo lavoro, Jumping The Shark è stato ristampato nel 2016 visto che tre anni prima nessuno l’aveva ascoltato.

Un personaggio che merita di essere scoperto, dal vivo come su disco. Sul finale dedica The Comeback a Angel Olsen che ha scelto di portarlo con lei in questo tour europeo.

Da parte del pubblico pagante (e sudato) , eterna gratitudine a entrambi, e tanti applausi.

Il mercoledì elettronico sotto il tendone del Magnolia si apre puntuale con il set di L I M. I presenti sono ancora pochi, chi ha pensato di arrivare giusto in tempo per il live principale, ha decisamente commesso un errore.
L I M è il progetto solista di Sofia Gallotti, altra metà del duo milanese Iori’s Eyes, e il suo EP di debutto Comet (uscito per La Tempesta International) è un piccolo gioiello. Un’elettronica colma di grazia, la sua, nella quale si mescolano intimità e freddezza, buio e luce.
Sul palco Sofia è una statuetta di porcellana o, se si preferisce, una creatura aliena. La sua voce fluida riempie l’aria e traccia il solco in cui vanno ad inserirsi suoni che oscillano, synth avvolgenti e beat suggestivi. Un’estetica sonora curata nei minimi dettagli che sul palco si anima, arricchita da una presenza discreta e allo steso tempo catalizzante.
Il live di L I M è breve ma intenso e spiana nella maniera migliore la strada a quello successivo che si inserisce in piena soluzione di continuità nel mood della serata.

William Doyle, meglio conosciuto come East India Youth, fa il suo ingresso in scena. Inglese, classe ’91, il ragazzo è un piccolo prodigio e lo si capisce vedendolo esibirsi. Outfit da cerimonia e basso in mano, a voler ben guardare potrebbe dare segni di schizofrenia e invece no perché sa unire anime diverse in maniera perfetta.
La sua è una musica contaminata, in cui generi differenti vengono manipolati con maestria. Dal synt-pop alla psichedelia, con ripetute incursioni che arrivano dritte dai gloriosi anni Ottanta e iniziano ad introdurre il cambio di atmosfera e far muovere i fianchi. Il set di Doyle ha di certo saputo accendere in chi non lo conosceva una certa curiosità e si è meritato una menzione speciale.

L’ora e giunta e SOHN è pronto a rapire la sala che nel frattempo si è riempita. Nel pubblico si sorgono volti noti di colleghi musicisti mentre i fan più accaniti zittiscono chi è ancora dedito al cazzeggio. SOHN rientra nella cerchia dei personaggi che ci si sceglie con cura: noto ma non troppo, di facile ascolto ma non solo, incasellabile ma non sempre.
Christopher Michael Taylor nasce a Londra e poi si sposta saggiamente nella decisamente meno musicalmente sovraffollata Vienna per studiarne la scena elettronica e mettere le radici del suo progetto musicale. Ora di base a Los Angeles, SOHN presenta il nuovo lavoro Rennen, uscito a gennaio per la 4AD a tre anni di distanza dell’osannato esordio Tremors.
Quello che offre sul palco è uno spettacolo vero e proprio in cui splendidi giochi di luce costituiscono il valore aggiunto senza il quale lo show non sarebbe lo stesso. Ciò che più colpisce è la perfezione tecnica: una voce impeccabile e un’eleganza totale (che va ben oltre lo stilosissimo cappello nero).
La scaletta mischia brani dei due lavori e mostra come l’evidente tocco pop riesca a non sfociare mai nel mainstream. Ci si muove e si balla ma l’effetto clubbing non arriva mai e il tipo di ascolto del pubblico rimane in qualche modo anche cerebrale.
Tra echi di trip hop e downtempo, il live scorre intenso e si passa da pezzi come The Wheel e Artifice all’incanto intimista di Signal e Tempest con totale nonchalance. Hard Liquor è la chiusura perfetta di un live che lascia ancora la voglia, e infatti si riprende dopo una standing ovation con il bis: Conrad è il finale definitivo. Una serata perfetta: tre artisti, tre facce dell’elettronica migliore, un concerto a cui ripensare.


SETLIST

Tempest

The Chase

Proof

Signal

Bloodflows

Dead Wrong

The Wheel

Artifice

Paralysed

Harbour

Falling

Lessons

Hard Liquor

 

Rennen

Tremors

Conrad

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I Wilco decidono di aprire il loro concerto milanese sul palco del Fabrique, omaggiando le ceneri delle bandiere americane, viste le circostanze (Ashes of American Flags). Cappello da cowboy, maglietta a righe, giubbino di jeans e pancia, Jeff Tweedy come sempre ha l’aria dell’americano medio, uno di quelli che alle recenti elezioni ha combinato il pasticciaccio che condizionerà i destini del mondo intero nei prossimi quattro anni. E invece è, al contrario, un essere tutt’altro che ordinario, e chi riempie la sala stasera lo sa bene e non a caso urla il suo nome già dall’inizio.

Ho sempre avuto paura di essere un normale ragazzo americano, canta in Normal American Kids, e invece è riuscito a benissimo a sfuggire a tale maledizione. Un’ apertura scarna e acustica, come lo è l’ultimo straordinario lavoro Schmilco, appena sporcata dai suoni elettrici dei fedeli compagni di band.
Inutile piangersi addosso (Cry All Day) in un momento come questo, Jeff è qui per rassicurarci con tutto il fare bonario di cui è capace. Dice che andrà tutto bene, We’re gonna be alright, che siamo in lutto ma assieme avremo la forza per elaborarlo perché siamo e saremo sempre più di loro, e così la bellezza, che non scomparirà.
Lui lo dice e tu stavolta ci credi sul serio. Quello che sorprende sempre, nonostante l’abitudine, è l’estrema naturalezza con cui in più di vent’anni, i cinque americani  riescono a fare tutto quello che fanno, sia su disco che dal vivo.
Il palco è un bosco e i Wilco suonano tra le fronde per due ore, con una scaletta che è un’ulteriore dimostrazione di intelligenza. Ai momenti più intimi e puliti (Misunderstood, Someone to Lose) si alternano le sperimentazioni di brani quali Art of AlmostI Am Trying to Break Your Heart, che permettono anche al batterista Glenn Kotche e al formidabile Nels Cline di mostrare tutta la loro maestria.
La verità è che, anche se poteva sembrare che con il precedente lavoro Star Wars la band di Chicago avesse avuto una piccola battuta d’arresto, non è mai stato così e i ragazzacci sono più forti di prima.
Dopo i classici Via Chicago e Impossible Germany arriva il momento Jesus, etc. a far sognare la sala e a ricordare che nel nostro mondo esistono brutture come Trump ma anche cose belle e perfette come quel disco che è Yankee Hotel Foxtrot.
Si torna sull’attualità, Tweedy spiega che ora più che mai in America la gente si guarda in faccia chiedendosi che fare e questo in qualche modo è un dato positivo. Poi si riprende a suonare ancora per un po’, con tanto di doppio bis e la platea che non smette di partecipare (canticchiando Spiders). Cline passa alla slide, si torna ai ritmi soft e si conclude al meglio con un’ultima ondata di calore.
I Wilco sono più che una certezza, e se Jeff Tweedy era qui con l’intento di rassicurarci ci è riuscito eccome. Si torna a casa carichi di energia positiva. Certi che, per quando le cose siano difficili, fino a che esiste chi come loro prosegue dritto su un cammino fatto di coerenza e bellezza e ha per fortuna deciso di condividerlo, saremo in qualche modo salvi.

SETLIST
Ashes of American Flags
Normal American Kids
If I Ever Was A Child
Cry All Day
I Am Trying to Break Your Heart
Art of Almost
Pickled Ginger
Misunderstood
Someone to Lose
Via Chicago
Reservations
Impossible Germany
Jesus, etc.
Locator
We Aren’t The World
Box Full Of Letters
Heavy Metal Drummer
I’m The Man Who Loves You
Hummingbird
The Late Greats

Random Name Generator
Spiders (Kidsmoke)

California Stars
War on War
Shot In The Arm

 

Per quanto possa sembrare una via bizzarra, può capitare che per riappacificarsi con la purezza naïf del rock si possa anche passare dalle strade tortuose dell’elettronica. Quella in questione che compie il miracolo appartiene ai Suuns, band di Montreal che con il recente Hold/Still giunge al suo terzo album in studio (da considerare a parte c’è il disco in collaborazione con i Jerusalem in My Heart dell’anno scorso). I Suuns sono una band ibrida e la loro elettronica è ben lontana dall’essere fredda e impersonale proprio perché suonata con tutti gli strumenti del rock.
In un groviglio di cavi e pedaliere, i quattro prendono posto sul palchetto del Biko che a malapena li contiene. Si alzano le luci, a illuminare il loro nome scritto a caratteri gonfiabili sullo sfondo, e si parte.
Ben Shemie è il leader carismatico che riesce a catalizzare gli sguardi dei presenti, dal primo all’ultimo. Liam O’Neill alla batteria, Max Henry al basso e synth e Joseph Yarmush alla seconda chitarra fanno altrettanto.
Il loro è un approccio pienamente fisico che non può non chiamare il totale coinvolgimento del pubblico (compreso il bambino in prima fila che non smette di far ondeggiare la testa). Non serve setlist, non si parla di canzoni ma di un flusso unico e ininterrotto: suono che prima sfiora poi assorbe fino a fagocitare totalmente.
La voce di Shemie è il filo rosso che lega i vari cambi d’atmosfera sonora: aliena e in uno stato di tensione perenne, grazie alla ripetizione di poche e precise parole diventa essa stessa uno strumento, parte integrante del rumore. Persino la chitarra a un certo viene cambiata e diventa trasparente come se vedere gli strumenti non servisse.
Eppure nel buio, si riesce a scorgere tutti: Il corpo di Shemie, si muove sinuoso, il batterista picchia forte e senza sosta, il tastierista guarda il muro e gira su se stesso, Yarmush ha il volto completamente coperto dai lunghi capelli. Belli anche da vedere, insomma e, cosa più importante, tutti musicisti non improvvisati.
E’ come se, prendendo in prestito i passaggi di stato, durante il live dei Suuns si riesca a evitare lo stato liquido preferendo la sublimazione immediata, nonostante il genere che fanno lo richiederebbe.
Uno degli apici si ha durante l’esecuzione di Resistence, uno dei brani più emblematici dell’ultimo lavoro che condensa a pieno l’essenza della band: minimale, categorica, futuristica.
Il continuo avvicinare le chitarre agli amplificatori non è un vezzo ma un gesto necessario per creare quei suoni distorti per loro fondamentali. Instument, Translate e 2020 (dal secondo lavoro Images Du Futur) sono solo alcune delle tappe che il percorso di tenebre pulsanti che la band canadese regala sul palco.
Escono e poi rientrano per il bis, salutano e ringraziano tra i fischi (di approvazione). Alla prossima.

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Stavolta a decidere di aprire il loro tour dall’Italia sono i The Veils, che scelgono il palco del Serraglio per presentare l’ultimo lavoro Total Depravity. Il quinto disco della band, uscito il 26 agosto, è strabiliante da diversi punti di vista. Composto quasi interamente in una stanza buia e poco aerata dell’East London (poi registrato in più luoghi, tra cui Casa Lynch), è un disco claustrofobico, cupo e disturbante e dal vivo la formazione australiana riesce a renderlo in tutta la sua pienezza.
Si parte con la perfezione totale di Here Comes The Dead e Axoloti ed è subito chiaro che il concerto proseguirà senza la minima sbavatura fino all’ultima canzone. Finn Andrews saluta e ringrazia. Con l’immancabile cappello nero a tesa larga, in scena è una strana creatura a metà tra la versione migliore del David Byrne predicatore allucinato e l’essere più pacato del mondo. La sua voce talmente perfetta da sembrare aliena porta in vita le storie degli stani personaggi che popolano il disco (Low Lays The Devil e Swimming With Crocodiles). Ecco arrivare la prima delle incursioni dei brani tratti da Nux Vomica, secondo album della band, datato 2006: la title track regala il primo vero momento sporco della serata, con la voce di Andrews che si spezza e l’andamento che si fa dapprima sincopato per poi esplodere a più riprese.
Si tratta di una serata speciale, spiega, la prima in cui suoniamo di nuovo assieme dopo un po’ di tempo. L’escalation claustrofobica e strisciante prosegue e trova il primo apice con l’esecuzione di Total Depravity, l’episodio decisamente più new wave di tutto il disco che dal vivo riesce ad essere ancora più disturbato. D’altronde la Depravazione Totale ha a che fare con il vizio che corrompe la natura umana, condizione da cui Andrews sembra oggi più che mai essere affascinato.
C’è spazio per brani più convenzionali (Lodin & Iron, Not Yet) prima della lisergica King of Chrome, racconto nero con protagonista un camionista psicopatico, narrato con il tono di un sermone per comunicarci chissà quale inquietante morale.
Il gruppo esce di scena e poco dopo il frontman rientra da solo, per regalare un momento più intimo con tanto di brano a richiesta dal pubblico che prova ad eseguire nonostante non lo ricordi bene (ero davvero giovane quando l’ho scritto). Recuperati gli altri, ci si avvia verso la conclusione che diventa definitiva con Jesus For The Jugular (sempre da Nux Vomica). Un lampo di luce rossa riempie la stanza, acceca i presenti poi si spegne e il palco è vuoto: degna conclusione di un live allucinato e allo stesso tempo raffinatissimo.
Non sappiamo mai bene cosa andremo a suonare, facciamo una manciata di cose sperando vada per il meglio, aveva detto poco prima di salutare. E per il meglio è andata, decisamente.


 

SETLIST:

Here Come The Dead
Axoloti
Do Your Bones Glow at Night
Low Lays The Devil
Swimming With The Crocodiles
Nux Vomica
House of Spirits
The Pearl
A Bit on The Side
Total Depravity
Lodin & Iron
Not Yet
King of Chrome

The Tide That Left & Never Came Back
In The Nightfall
Advice for Young Mothers to Be
Calliope!
Jesus For The Jugular

Passenger sceglie Milano per la data zero del suo tour mondiale, e Milano gliene è grata. Anche perché si tratta della prima volta con una band al completo in più di dieci anni di attività.
Michael David Rosenberg, già membro della band Passenger, scioltasi dopo un solo disco, della quale ha conservato il nome, ha un lungo e intenso passato da busker. Non solo non ne fa mistero, ma lo condivide con il pubblico che affolla il Fabrique, raccontando aneddoti e storie a riguardo.

Dopo l’apertura con l’ applaudito songwriter originario di Johannesburg Gregory Alan Isakov, la band arriva sul palco. Se non avete avuto abbastanza tempo per imparare i testi delle canzoni non è grave, scherza. Il settimo lavoro Young as the Morning, Old as the Sea è uscito da soli cinque giorni eppure i fan sembrano più che preparati.
Si apre con Everybody’s love e If you go e i cori già iniziano a farsi sentire. Poi subito spazio ad alcune old songs, quelle scritte prima di quella canzone nata sotto una stella più che buona che poi gli ha cambiato la vita. Prima di Let Her Go (che è let her, non let it), spiega, ci sono stati momenti nei quali la vita da artista di strada sembrava destinata a durare davvero per sempre. 27 parla proprio di questo: I write songs that come from the heart I don’t give a fuck if they get into the chart. Dal pensarla cosi ad avere 3.000 persone che cantano a memoria ogni parola in una lingua che non è la loro, di strada ne è passata, eppure non è servito vendere l’anima al diavolo né tanto meno cambiare la propria natura.

La ricetta è semplice: Passenger scrive (davvero con il cuore) testi semplici e delicati dando vita a episodi che di fatto sono assolutamente pop pur essendo in realtà folk. Ed è per questo che anche stasera nessuno smette per un secondo di cantare. L’avere una band alle spalle d’ora in poi gli darà la possibilità di giocare a fare la star, di divertirsi e magari di scrollarsi un po’ di dosso la malinconia che chi canta canzoni tristi in mezzo a una strada si porta per forza addosso. E infatti in scaletta di pezzi più movimentati ce ne sono, e coinvolgono sul serio (l’allegra catarsi di I Hate su tutte).
Ma quello di Passenger rimane un animo più che nobile, la sua è una musica pienamente sentimentale e la lunga introduzione emblematica al brano seguente lo conferma. Trattasi della storia di due persone incontrate in passato: un vecchio signore che aveva programmato una serie di viaggi in Europa da fare con l’adorata moglie e invece si è ritrovato costretto a viaggiare da solo dopo la sua improvvisa scomparsa e una bella sconosciuta che ha pianto davanti a lui le sue pene d’amore. A questi due incontri, fatti in strada mentre suonava in Danimarca, ha dedicato rispettivamente la prima e la seconda parte di Travelling Alone. La esegue solo con la sua chitarra, come ai vecchi tempi, e il silenzio in sala è totale, da lasciare spiazzati.
Si prosegue e ovviamente arriva anche Let Her Go, nemmeno a dirlo, cantata all’unisono, un altro scambio di chiacchiere anche sull’attualità (il mondo non ha affatto bisogno di persone come Donald Trump) Poi è il momento dell’uscita di scena ma a suon di battiti di mani ininterrotti, tutti si rifiutano di accettare la fine.
E infatti lui torna in scena per il bis. Una cover di Losing My Religion, poi Home e infine Holes ed è il momento dei saluti definitivi.

Il passaggio di questo cantautore dotato, autentico e pulito dimostra che in realtà spesso le cose sono più semplici di quanto si pensi. Basta eliminare le sovrastrutture, offrire quello che si ha cercando di farlo nella maniera migliore. Basta sicuramente per essere in pace con se stessi, e non è poco. Se poi le circostanze favorevoli (forse i pianeti allineati?) e un pizzico di fortuna aiutano, allora basta anche per ottenere il riscontro che si merita e, perché no, un po’ di riscatto. Basta per regalare al pubblico pagante una serata da raccontare a qualche amico a cui consigliare caldamente il live di Passenger per la prossima volta in cui ripasserà da qui.


SETLIST:

Somebody’s Love
If you Go
Life’s For The Living
When We Were Young
27
Anywhere
Everything
Travelling Alone
I Hate
Young As The Morning
Beautiful Birds
Let her Go
Losing My Religion (R.E.M)
Scare Away The Dark

Home
Holes

 

[Report: Laura Antonioli  –  Photo: Francesca Di Vaio]

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Kristian Matsson, il cantautore tascabile più alto sulla terra, ripassa dall’Italia, più precisamente sul palco del Fabrique di Milano, dopo l’improvviso scambio di location (precedentemente era stato annunciato al teatro Franco Parenti). Per aprire la serata, sceglie il connazionale e amico fraterno The Tarantula Waltz, all’anagrafe Markus Svensson. Un songwriter tra i tanti, si esibisce sul palco chitarra e voce e nonostante sia capace, fa pensare a quanto la svolta elettrica di Dylan a Newport cinquant’anni fa sia stata sacrosanta per salvarci dalla noia mortale del folk nudo e crudo, monotono e trascurabile.

La storia cambia quando sulla scena compare lui, Kristian Matsson, per tutti The Tallest Man on Heart da quando, nel 2006 pubblica il primo ep omonimo.
È piccolo e a fargli compagnia c’è solo il suo strumento, ma riempie perfettamente la scena con la sua sola presenza e di spazio libero non ne resta. Le suggestioni, i ritmi e le parole sono fragili eppure riesce ad essere incredibilmente maestoso. Apre lo show con East Virginia, traditional cantato anche da Joan Baez, tanto per mettere in chiaro le cose: anima, talento, folk e nient’altro.
Una passione feticista per le chitarre che cambia di canzone in canzone, plettri lanciati in aria che piovono come fossero coriandoli. Fields of Our Home dall’ultimo lavoro Dark Bird Is Home a cui seguono due brani dell’apprezzatissimo There’s No Leaving Now, datato 2012: suona sulle punte, si muove con la stessa grazia che pervade le sue canzoni. La voce è potentissima e a tratti nasale, proprio come quella di Dylan, giusto perché sfuggire al suo fantasma quando si decide di essere un folk-singer di questo tipo è praticamente impossibile.
La sala non è completa ma il pubblico è di affezionati veri e il calore si sente anche se lo stato è piuttosto contemplativo perché, davvero, non c’è bisogno di fare nulla. Solo guardarlo e lasciarsi trasportare dalla bellezza dell’esecuzione di pezzi quali I Won’t Be Found e Little Nowere Towns. L’età del pubblico è varia e può succedere che un ottantenne chieda timidamente agli uomini della security di poter oltrepassare un attimo le transenne per scattare qualche fotografia da tenere come ricordo.
Il menestrello intanto sorride e ringrazia a più riprese, poi racconta un aneddoto su un gruppo di fans che tempo fa ha invaso la sua proprietà nelle campagne svedesi. I’m a friendly guy but just don’t go to my house, o prima almeno avvertitemi, scherza per introdurre il recente singolo Rivers, che di paesaggi bucolici narra.
Dice di non aver scelto con cura per il pubblico milanese le sue chitarre più silenziose, sapendolo atto all’ascolto, poi si siede alla tastiera. Lo spettacolo prosegue con un’atmosfera sempre più raccolta che conduce alla parte finale del set che è un alternarsi di ballate soft (Time Of The Blue, There’s no Leaving Now) ed episodi coinvolgenti che chiamano il battito collettivo di mani (King of Spain). Fino all’ultimo dà tutto quello che ha, saltella si siede e si rialza, gioca con gli strumenti.
Si chiude con Dark Bird Is Home: I thought that this would last for a million years/ But now I need to go / Oh, fuck. Finale teatrale e perfetto, non fosse che il pubblico lo acclama e lui torna in scena per altri due brani. Si dice stanco della propria tristezza e per Il saluto definitivo sceglie quella di qualcun altro (quella scritta da Jackson Browne e cantata per prima da Nico, nello specifico) per una versione splendida di These Days, con tanto di chitarra small size color oro. La serata è finita e il piccolo principe del folk ha davvero lasciato il segno.

 

SETLIST:

East Virginia 

Fields of Our Home

1904

Criminals

The Wild Hunt

Darkness Of The Dream

I Won’t Be Found

The Gardener

Little Nowhere Towns

Love Is All

Rivers

The Sparrow & The Medicine

On Every Page

Time Of The Blue

There’s No Leaving Now

King of Spain

Dark is Bird Home

Sagres

These Days (Jackson Browne)


[Report: Laura Antonioli   –   Photo: Francesca Di Vaio]

 

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Ieri sera un Forum di Assago completamente sold-out ha ospitato l’unica tappa italiana del tour mondiale di Lenny Kravitz: il rocker newyorkese ha presentato dal vivo al pubblico italiano alcuni brani tratti dal nuovo lavoro “STRUT”, e molti vecchi successi, dando prova di indubbie qualità da showman. Verso le 21.10 Lenny e la sua numerosa band hanno calcato il palco, aprendo le danze con il singolo “The Chamber”: il brano, che è stato scelto per lanciare l’album uscito a settembre, è apparso potente e carico anche dal vivo; e insieme al successivo “Dirty White Boots” ha contribuito a scaldare la folla.
Su “American Woman” però c’è stato un ancor più forte boato di entusiasmo da parte dei presenti presso l’affollato palazzetto milanese, e insieme al protagonista dello show, anche il chitarrista della sua band ha tenuto banco con il primo di una lunga serie di assoli. Alle evidenti qualità di performer dell’artista, che da oltre due decenni è una rock-star di livello planetario, sono stati affiancati ottimi musicisti (tre coriste, una sezione ritmica al femminile e una ricca sezione fiati) che hanno scandito tutto il concerto con passione e professionalità.

Lo spettacolo è proseguito con “It Ain’t Over Till it’s over” e “Strut”, rivelando l’attitudine per certi versi hendrixiana di Kravitz, che con la sua energia e le sue qualità artistiche, ha riportato i presenti ai momenti in cui il suo predecessore incendiava le chitarre sul palco. “La mia voce non è come dovrebbe essere ma negli ultimi giorni non sono stato bene: il mio entourage mi aveva chiesto di non dire niente ma io voglio condividere tutto con voi, perché senza di voi tutto questo non esisterebbe” ha poi confessato, portando all’attenzione del pubblico qualcosa di cui probabilmente nessuno si era accorto fino a quel momento. La vocalità del cantante in realtà non ha mai ceduto, mostrandosi intensa e potente; viene dunque da chiedersi: cosa sarebbe successo sul palco se fosse stato in piena forma?

In fase conclusiva “Dig in” e “I Belong to you” sono state cantante e ballate sincronicamente da tutti, per poi arrivare all’esecuzione apprezzatissima “Fly Away”, che ha chiuso la prima parte. Dopo un monologo sull’amore, nel corso del quale Lenny ha invitato i presenti a diffondere la propria energia positiva, seguito da una brevissima pausa, il congedo definitivo è arrivato in maniera esplosiva con “Are you gonna go my way”. Oltre due ore di musica dal vivo non sono bastate per passare in rassegna tutti i numerosi successi che dagli anni ’90 ad oggi abbiamo imparato a conoscere. Talento, presenza scenica e capacità di scrittura di brani capaci di arrivare alla gente in maniera trasversale – e il variegato pubblico accorso ieri al Forum lo ha dimostrato – hanno portato Lenny Kravitz ad essere considerato uno degli artisti più capaci e rappresentativi della sua generazione, i suoi live ne sono la prova.

Lenny Kravitz, Milano – 10 novembre 2014 – Setlist:

The Chamber
Dirty White Boots
American Woman
It’s Ain’t Over till It’s Over
Strut
Dancin’ Till Dawn
Sister
Circus
New York City
Dig in
Always on the Run (Jam)
I Belong to you
Let Love Rule
Fly Away

Encore:

Are You Gonna Go my Way

Ecco la gallery fotografica del concerto:

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I Kasabian sono sicuramente una band dall’identità artistica particolare ed unica. Per cominciare, è strutturata in modo differente rispetto ai gruppi tradizionali: a condividere la scena ci sono infatti due personalità speculari e complementari, ovvero l’affascinante chitarrista ed autore dei brani Sergio Pizzorno, e il carismatico cantante dal timbro vocale definito e riconoscibile, Tom Meighan.  A questo si aggiunga una carriera ultra-decennale non paragonabile a nessuna delle formazioni band come loro arrivate al successo all’inizio degli anni 2000: partiti come gruppo di nicchia, hanno infatti conquistato con il passare degli anni sempre più consensi anche in Italia, senza però snaturare la propria ‘credibilità’. Il loro disco più recente –  intitolato “48:13” – e pubblicato quest’anno, infatti ha segnato una svolta electro rispetto al sound passato, pur mantenendo un’ossatura rock ‘n roll.

Ad ogni modo la set-list proposta ieri sera (1 novembre 2014) dai Kasabian, che si sono esibiti sul palco del Mediolanum Forum di Milano in occasione della seconda ed ultima tappa italiana del loro tour europeo, è stata stilata all’insegna del vecchio stile. Apertura a parte (“Shiva” + “Bumblebeee”) nella prima mezz’ora c’è stata un’alternanza di salti nel passato: “Shot the Runner”, direttamente dal secondo acclamato lavoro “Empire”, ha fatto subito esplodere la folla, che su “Underdog” (brano di apertura del terzo album “West Ryder Pauper Lunatic Asylum”) è andata in delirio. Subito dopo sono arrivate anche le ballad “Where did all love go?” e “Days are forgotten”, cantate dai presenti e scandite in maniera corale. La scaletta, composta in parti quasi equivalenti da estratti provenienti dai cinque album di studio della band, è poi tornata ad episodi più recenti: il singolone radiofonico “Eez-eh” dal vivo è ancora più danzereccio, ma è stato il quarto disco “Velociraptor!”, uscito nel 2011, il meglio accolto. C’è stato spazio anche per alcuni momenti goliardici post-halloween: Sergio Pizzorno – con codina finta annessa e un costume da scheletro sfoggiato anche dalle violiniste che hanno accompagnato gli ultimi brani – ha prima intonato, sfoggiando un incerto italiano, “Buon compleanno” alla moglie presente in platea, e poi suonato per intero insieme ai compagni una rinnovata versione di “Ghostbusters”. Gli apprezzatissimi “Empire” e “Fire” hanno chiuso in grande stile la prima parte del live, dando l’ennesima prova dell’impeccabile presenza scenica della band, che dal vivo riesce a dare una resa ancora maggiore a pezzi già potenti su disco.

Durante l’encore l’esecuzione di “Vlad the Impaler” e “Goodbye Kiss” ha ben introdotto una conclusione con la C maiuscola: dopo aver riproposto “Praise You” di Fat Boy Slim i Kasabian hanno infatti salutato i presenti con “L.S.F. (Lost Souls Forever)”, canzone che li ha portati al successo nel 2004 e che in un certo senso ne rappresenta in pieno l’essenza stilistica. Tom Meighan, travolto dall’affetto che i fan italiani gli hanno dimostrato, prima di scendere definitivamente dal palco ha cantato a cappella (e fatto cantare) il ritornello di “All You need is love”. Sergio Pizzorno invece ha ringraziato inchinandosi in segno di venerazione e dicendo “Mi sento a casa”; e noi dopo lo show di ieri sera sicuramente gli crediamo.

Kasabian, 1 novembre 2014, Milano @Mediolanum Forum – Setlist:

(Shiva)
Bumblebeee
Shot the Runner
Underdog
Where did all the love go?
Days are Forgotten
Clouds     nuovo
Eez-eh     nuovo
Man of simple Pleasures
Bow
Neon Noon
Club Foot
Re-Wired
Treat
Switchblade Smiles
Empire
Ghostbusters (cover Ray Parker Jr)
Fire

Encore:

Stevie
Vlad the Impaler
Goodbye Kiss
Praise You (cover Fat boy Slim)
L.S.F. (Lost Souls Forever)
(All you need is love)

Guarda la gallery del concerto dei Kasabian al Palalottomatica di Roma (31 ottobre 2014)

Sole, mare e una bella città come Genova hanno fatto da cornice ieri sera, 16 luglio 2014, ad uno degli eventi organizzati in occasione della sedicesima edizione del Goa Boa Festival, il concerto di Paolo Nutini. L’Arena del Mare situata presso il Porto Antico – suggestiva venue nella quale si è svolta la prima delle tra tappe italiane del talentuoso artista scozzese, classe 1987 – ha cominciato ad affollarsi attorno alle 19.00. Ciò che è subito apparso evidente dopo una prima occhiata è la trasversalità di genere e generazione di appartenenza del pubblico che Nutini riesce a richiamare al proprio cospetto: c’erano sì giovani donne urlanti che correvano frettolosamente verso i cancelli per prendere posto prima degli altri ed accaparrarsi una miglior visuale del bel Paolo, ma anche uomini con mogli e figli al seguito, ragazzi con gli amici, o gruppetti di signore eleganti abbigliate come se dovessero andare alla cresima del nipote, tutti accorsi per sentire dal vivo colui che si è considerato uno dei più promettenti artisti europei della propria generazione. L’apertura è stata affidata ai Rainband, capitanati dal simpatico Martin Finnigan, che ha anche cercato di interagire con i presenti parlando in italiano, non sempre riuscendoci al meglio: il loro live è terminato senza particolari momenti rilevanti, eccenzion fatta per l’esecuzione del brano scritto in onore del compianto Marco Simoncelli, “Rise Again”, i cui proventi sono interamente destinati alla fondazione nata in nome del giovane pilota scomparso nel 2011.

Dieci minuti prima delle 22.00 finalmente Paolo Nutini, accompagnato dalla sua band, ha fatto la propria comparsa sul palco, tra le urla della folla: giacca di pelle (che non si è mai tolto per un’ora e tre quarti di live nonostante i circa 30 gradi che ieri il clima estivo genovese regalava anche a tarda serata), capelli spettinati sugli occhi e poche parole proferite per lasciare spazio quasi solamente alla musica. Il cantante, che quest’anno ha dato alle stampe il suo terzo e fortunato album intitolato “Caustic Love”, ha aperto il set con uno dei singoli contenuti nel nuovo lavoro, ovvero “Scream (Funk My Life Up)”. E proprio dallo stesso disco sono stati tratti gran parte dei brani eseguiti, come la successiva “Let me down easy”, ma anche “Looking for something”, “Numpty”, “Better Man”, “Diana”, “One Day”, “Cherry Blossom”, e infine la sofisticata e romantica “Iron Sky”, che ha terminato la prima parte decisamente in bellezza”. La scaletta ha però incluso anche molti vecchi successi e canzoni estrapolate dai primi due lavori di Nutini: “These Streets” (2006) e “Sinny Side Up” (2009): “Alloway Grove”, “Coming Up Easy”, “Jenny Don’t Be Hasty” (chiusa con un accenno di “New Shoes”), “Tricks of the Trade”, l’ominimo “These Streets”, “Pencil Full of Lead” e “No Other Way”. L’encore invece ha invece dato spazio a “Growing Up Beside You” e alla toccante “Candy”, ultima canzone eseguita con il gruppo prima di salutare tutti proponendo “These Streets” in acustico, supportato solo dalla propria fedele chitarra. Il concerto al quale abbiamo assistito ieri è stato emozionante e ben costruito, con Paolo Nutini, coadiuvato da ottimi musicisti, che ha dato prova di grande talento e passione per quello che riesce a fare molto bene da ormai qualche anno. Andate a sentirlo almeno una volta, non vene pentirete: il prossimo live italiano è quello fissato a Padova per stasera, ma Paolo Nutini ha già annunciato un nuovo appuntamento autunnale a Milano.

Paolo Nutini @Goa-Boa Festival – Genova – Porto Antico – 16 luglio 2014, setlist:

Scream (Funk My Life Up)
Let me Down Easy
Alloway Grove
Coming Up Easy
Looking For Something
Numpty
Jenny Don’t Be Hasty / New Shoes
Better Man
Diana
Recover
Tricks of the Trade
These Streets
One Day
Cherry Blossom
Pencil Full of Lead
No Other Way
Iron Sky

Encore

Growing Up Beside You
Candy
Last Request (acoustic)

Photo Credit Samuele Tosi

L’edizione 2014 di Unaltrofestival si è appena conclusa tra Milano e Bologna: dopo un’affollata apertura con MGMT e Panda Bear (QUI il nostro resoconto), vi raccontiamo la seconda parte della manifestazione musicale dalla line-up doppia svoltasi al Magnolia di Milano ieri sera, martedì 15 luglio. Due palchi e cinque gruppi, come nella prima parte, hanno dato vita ad un evento ben organizzato e dal respiro europeo, anche se il pubblico era presente in maniera ridotta rispetto alla serata chiusa dagli MGMT. Ai giovani e talentuosi Foxhound è stato affidato il compito importante di dare il via ad una serie di concerti ruvidi e psichedelici, e la giovanissima band torinese non ha deluso le aspettative stupendo piacevolmente i presenti dallo stesso palco che aveva ospitato i colleghi italiani M+A la sera prima. Subito dopo si sono presentati gli anglo-scozzesi Telegram – che insieme ai Temples esibitisi subito dopo – sono stati una piacevole sorpresa: per ambedue i gruppi infatti il mood stilistico di stampo ’60s e i ‘70s è stato un marchio distintivo, partendo dai brani proposti fino ad arrivare al look dei componenti di entrambe band. In particolar modo i Temples, non ancora conosciuti quanto dovrebbero dalle nostre parti, se la sono cavata egregiamente facendo ballare la folla presente sotto il palco più piccolo sulle note di “Shelter Song”, “Prisms” e altri brani dal sound shoegaze eseguiti impeccabilmente.

Il salto temporale nel passato flower-power è durato anche per le due successive formazioni attese entrambe sul main stage: The Horrors e The Dandy Warhols. Il gruppo inglese capitanato da Faris Rotter – che si è pronunciato contento di essere finalmente tornato in Italia – ha eseguito alcuni pezzi recenti, tratti dagli ultimi due lavori “Luminous” (2014) e “Skying” (2011), ma anche un paio di canzoni di stampo noise rock estratte dall’acclamato disco uscito nel 2009 e intitolato “Primary Colours”. “Mirror’s Image” e “Who Can Say” infatti sono stati gli highlight della performance della band, ma soprattutto i più apprezzati dalla maggior parte di chi assisteva al concerto, che non ha saputo trattenersi dal ballare scatenatamente. Distorsioni e riverberi sono stati fondamentali anche per gli head-liner Dandy Warhols, che (almeno secondo me) non ci regalano niente di discograficamente rilevante dai primi anni 2000. Forse anche per questo motivo – oltre che per il look improbabile del front-man Courtney Taylor-Taylor, che si è presentato sul palco con le treccine e la riga in mezzo da squaw, ma nella nostra memoria era rimasto il pazzo senza vestiti e spettinato del tormentone “Bohemian Like You” – molti di noi non si aspettavano granché quando la formazione nata nell’Oregon nei primi anni ’90 ha iniziato a suonare. Niente di più sbagliato, visto che anche chi si è accostato al palco per pura curiosità (magari richiamato dalla presenza di Horrors e Temples) ha potuto ricredersi: oltre al singolo che li ha resi famosi in tutto il mondo e ad altri brani tratti dal ben riuscito “Thirteen Tales From Urban Bohemia” (le belle “Get Off” e “Goodless“ad esempio), la band ha proposto dal vivo anche molte canzoni più recenti – l’ultimo album di studio della band risale al 2012 e si intitola “This Machine” – come la divertente “Not if you were the last junkie on earth” (1997) ma anche il celebre brano del 2003 “We Used to Be Friends”, portato a termine dopo un piccolo stop per problemi tecnici che si è rivelato l’unico intoppo di un piacevolissimo live. Che dire, onore a Unaltrofestival! E appuntamento (speriamo) al prossimo anno.

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I Camel arrivano in Italia dopo 14 anni con un tour celebrativo, “The Snow Goose”, a ricordare lo storico compagno di band Peter Bardens purtroppo scomparso. Tocca all ‘Hiroshima Mon Amour di Torino ospitare il primo di due appuntamenti.
La formazione è composta da numerosi dei membri storici che si sono susseguiti negli anni: Andy Latimer (chitarra, voce, flauto), Colin Bass (basso, voce, tastiere, chitarra acustica), Guy LeBlanc (tastiere) e Denis Clement (batteria), ospite speciale il tastierista Jan Schelhaus.
L’evento è sold out e il pubblico presente sembra affamato di buona musica, così alle 22 in punto inizia il live: a rompere il ghiaccio è il tocco di chitarra unico di Latimer sulle note di “The great mark” seguita da “Rhayader”. Le successive due ore di musica sono state un sublime tuffo in tutta la discografia dei Camel, riff brillanti e coinvolgenti che hanno lasciato a bocca aperta tutti i fans.
Una pausa ha diviso lo show in due parti, giusto il tempo di far riposare il frontman Andy Latimer, ma poi la canzone “Never let go” seguita da “Song within a song“ hanno dato il via alla seconda ora di puro progressive rock.
A chiudere la serata è stato il brano “For today”, dove è scattata una vera e propria standing ovation del pubblico che, non avendone abbastanza, ha chiamato ancora la band per un ultimo pezzo “Lady fantasy”.
I fans più temerari hanno aspettato impazienti l’aftershow; la band è uscita dai camerini e si è concessa un bicchiere di vino, quattro chiacchiere e un po’ di foto ricordo. Personalmente, considero questo concerto uno degli show più belli e emozionanti degli ultimi anni e si spera di rivederli presto nel nostro bel paese.

Ecco la scaletta THE SNOW GOOSE

The great mask
Rhayader
Rhayader goes to town
Sanctuary
Fritha
The snow goose
Fiendship
Migration
Rhayander Alone
Flight of the snow goose
Preparation
Dunkirk
Epitaph
Fritha alone
La princesse perdue
The great Marsh (reprise)

SECOND HALF
Never let go
Song within a song
Echoes
The hour candle ( a song for my father)
Tell me
Watching the bobbins
Fox hill
For today

ENCORE
Lady fantasy

Si ringrazia Hiroshima Mon Amour e Blue Sky Promotion per l’invito.

Live report e photogallery a cura di Marco Cometto