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Francesca Di Vaio

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Tornano al Carroponte i Nobraino con il loro quinto album: 3460608524 (Woodworm/Audioglobe).
La band indie rock nata negli anni ’90 a Riccione ha come punto di forza un’esibizione live esplosiva: Lorenzo Kruger, Néstor Fabbri, Davide Jr. Barbatosta, Bartok e Il Vix hanno portato sul palco nuove e vecchie canzoni, tra stagediving e la completa partecipazione del fedele pubblico che ha cantato a squarciagola ogni brano.
Un mix di generi tra rock, jazz, funk accompagnato dalla voce grave e di Kruger, un frontman che non si stanca mai di dare tutto se stesso ai fan.
Ecco le foto della serata:

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Korn, Milano, Alcatraz

Un Alcatraz sold out ha accolto i Korn domenica sera a Milano.

In apertura gli Hellyeah di Vinnie Paul, ex batterista dei Pantera. Musica intensa e aria di “famiglia”, come dice il cantante Chad Gray salutando il pubblico milanese, a ricordare che quella del metal è quasi una fede. Suonano solo mezz’ora, ciò che basta a far entrare nel vivo la massa di persone che piano piano inizia ad accalcarsi dentro la struttura.

Tocca poi agli Heaven Shall Burn, ventennale gruppo death core tedesco: il cantante Marcus Bischoff scalda il pubblico chiedendo a gran voce un wall of death. La prima linea risponde con un pogo pesante. La band teutonica si è sicuramente guadagnata dei nuovi adepti questa sera, facendo così conoscere meglio anche a noi italiani questo gruppo tedesco di grande fama nazionale che nel nostro Paese è ancora misconosicuto. Una grande performance live che lascia gli spettatori quasi increduli e qualcuno già stanco dal troppo headbanging.

Dopo una breve attesa salgono sul palco Jonathan Davis e compagni. Una piccola parte tra i presenti, i fortunati possessori del VIP Ticket, si sono già goduti nel pomeriggio una performance esclusiva in acustico gruppo di Bakersfield, che ha eseguito Alone I Break solo per loro. La band è in ottima forma: “I’m feeling mean today – Not lost, not blown away…”. Attaccano con Right Now, poi  snocciolano in rapida successione una serie di chicche e vecchi classici, intervallati da Insane e Rotting In Vain, due brani tratti dal loro ultimo album “The Serenity Of Suffering“. Immancabili Somebody Someone, Make Me Bad e Freak on a Leash, che chiude lo show.

Performance granitica di Jonathan Davis, che parla poco e bada alla sostanza, esalta il pubblico e trascina i compagni, agghindato con una curiosa gonnellina a motivi floreali che purtroppo il grosso del pubblico si sarà perso, accalcato in fondo alla sala o troppo impegnato nel pogo di rito.

Questa la scaletta del concerto:

VIP Pre-Show Performance
Alone I Break (Acoustic)

Main Set
Right Now
Here to Stay
Rotting in Vain
Somebody Someone
Word Up!
(Cameo cover)
Coming Undone
(Con “We Will Rock You”)
Insane
Y’All Want a Single
Make Me Bad
Shoots and Ladders
(con “One”)
Drum Solo
Blind
Twist
Good God
Falling Away From Me
Freak on a Leash

 

Report di Francesca Di Vaio e Patrizia Frattini

SETLIST:
Send Them Off!
Laura Palmer
Warmth
Snakes
Flaws
Oblivion
Lethargy
Things We Lost in the Fire
The Draw
The Currents
The Anchor
Bad Blood
Four Walls (The Ballad of Perry Smith)
Blame
Of the Night
Fake It
Weight of Living, Pt. II
Glory
Good Grief

ENCORE:
Two Evils
Icarus
Pompeii

 

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Nicolas Jaar live @ Alcatraz, Milano.
La photogallery della serata del 24 novembre 2016:

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È una festa di compleanno di tutto rispetto quella che Brian Molko e compagni hanno organizzato per il ventesimo concerto del tour che celebra i loro vent’anni di carriera. E se è il pubblico a cantare in coro “Happy Birthday” come nella più classica delle festicciole casalinghe sono invece i Placebo a fare a Milano e ai fan presenti il regalo più bello: live tiratissimo, Brian Molko e band in gran forma, scaletta che non dimentica nessuno dei grandi successi della band.

Molko in più di un’occasione aveva espresso quello che spesso è un sentimento comune per le band più longeve: una sorta di disamore nei confronti dei più grandi successi commerciali di Placebo. Ma in questo tour celebrativo, aveva assicurato il cantante, ci sarebbe stato spazio per tutti i loro cavalli di battaglia. E così è stato.

Il concerto si apre con i maxi schermi che trasmettono un omaggio a Leonard Cohen, recentemente scomparso. Dopo l’applauso che il pubblico gli dedica parte invece un video che celebra la storia della band con frammenti dei loro videoclip e riprese di backstage. Quando la band arriva sul palco e attacca con “Pure Morning” il pubblico esplode in un boato.

Molko si dismostra subito in ottima forma e non disdegna di prendersi delle pause tra una canzone e l’altra per parlare degli argomenti più diversi: dalla superluna di questi giorni alle catastrofi ambientali imminenti, fino al suo commento in merito al fatto che in molti, tra il pubblico, hanno il cellulare alzato.

“Ladies and gentlemen and everyone in between” dice rivolgendosi al pubblico “Molti di voi oggi hanno scelto di guardare il concerto attraverso una piccola gabbia: un piccolo schermo, che vi fornisce un simulacro inferiore del momento. E questa è una vostra scelta, non possiamo fermarvi. Fatelo pure: perdetevi tutto il concerto, filmatelo, portatevelo a casa, riguardatevelo e si sentirà e si vedrà di merda”.

Dopo l’invettiva e la presentazione della band, si ricomincia con “Too Many Friends“, seguita da una infilata di canzoni che scorre via veloce fino a “Without You I’m Nothing“, in cui sui maxi schermi compaiono immagini di David Bowie e di momenti insieme a Brian Molko. “Grazie David”, lo saluta Molko. Il pubblico tributa un grande, lungo applauso al Duca Bianco. È uno dei momenti più intensi della serata. Figlio di un banchiere, cresciuto a Lussemburgo in importanti scuole private, Molko ha più volte dichiarato il suo debito con Bowie: “Mi ha salvato la vita, avrei fatto qualsiasi cosa per non finire dietro una scrivania in banca”.

Dopo “Lady Of The Flowers” Brian dichiara apertamente la fine di quella che lui definisce “The melancholic section of our show”. E infatti si riprende con un picco di adrenalina che prevede in veloce successione “For What It’s Worth“, “Slave To The Wage“, “Special K“, “Song To Say Goodbye” e “The Bitter End“.

Il rito dei bis prevede “Teenage Angst“, “Nancy Boy” e “Infra-Red” e si chiude con “Runnin Up That Hill“. Sugli schermi, un pacchetto di sigarette con il volto di Donald Trump e la scritta  “Nuoce gravemente a te e a chi ti sta intorno”.

Festa di compleanno particolarmente riuscita per i Placebo, che hanno entusiasmato il loro pubbico e sono stati ricambiati da un grande calore, in un continuo scambio di energia.

Queste le foto del concerto, scattate da Francesca Di Vaio:

Questa la setlist del concerto:

Pure Morning
Loud Like Love
Jesus’ Son
Soulmates
Special Needs
Lazarus
Too Many Friends
Twenty Years
I Know
Devil in the Details
Space Monkey
Exit Wounds
Protect Me from What I Want
Without You I’m Nothing
36 Degrees
Lady of the Flowers
For What It’s Worth
Slave to the Wage
Special K
Song to Say Goodbye
The Bitter End

BIS

Teenage Angst
Nancy Boy
Infra-red

Running Up That Hill (Kate Bush)

Per quanto possa sembrare una via bizzarra, può capitare che per riappacificarsi con la purezza naïf del rock si possa anche passare dalle strade tortuose dell’elettronica. Quella in questione che compie il miracolo appartiene ai Suuns, band di Montreal che con il recente Hold/Still giunge al suo terzo album in studio (da considerare a parte c’è il disco in collaborazione con i Jerusalem in My Heart dell’anno scorso). I Suuns sono una band ibrida e la loro elettronica è ben lontana dall’essere fredda e impersonale proprio perché suonata con tutti gli strumenti del rock.
In un groviglio di cavi e pedaliere, i quattro prendono posto sul palchetto del Biko che a malapena li contiene. Si alzano le luci, a illuminare il loro nome scritto a caratteri gonfiabili sullo sfondo, e si parte.
Ben Shemie è il leader carismatico che riesce a catalizzare gli sguardi dei presenti, dal primo all’ultimo. Liam O’Neill alla batteria, Max Henry al basso e synth e Joseph Yarmush alla seconda chitarra fanno altrettanto.
Il loro è un approccio pienamente fisico che non può non chiamare il totale coinvolgimento del pubblico (compreso il bambino in prima fila che non smette di far ondeggiare la testa). Non serve setlist, non si parla di canzoni ma di un flusso unico e ininterrotto: suono che prima sfiora poi assorbe fino a fagocitare totalmente.
La voce di Shemie è il filo rosso che lega i vari cambi d’atmosfera sonora: aliena e in uno stato di tensione perenne, grazie alla ripetizione di poche e precise parole diventa essa stessa uno strumento, parte integrante del rumore. Persino la chitarra a un certo viene cambiata e diventa trasparente come se vedere gli strumenti non servisse.
Eppure nel buio, si riesce a scorgere tutti: Il corpo di Shemie, si muove sinuoso, il batterista picchia forte e senza sosta, il tastierista guarda il muro e gira su se stesso, Yarmush ha il volto completamente coperto dai lunghi capelli. Belli anche da vedere, insomma e, cosa più importante, tutti musicisti non improvvisati.
E’ come se, prendendo in prestito i passaggi di stato, durante il live dei Suuns si riesca a evitare lo stato liquido preferendo la sublimazione immediata, nonostante il genere che fanno lo richiederebbe.
Uno degli apici si ha durante l’esecuzione di Resistence, uno dei brani più emblematici dell’ultimo lavoro che condensa a pieno l’essenza della band: minimale, categorica, futuristica.
Il continuo avvicinare le chitarre agli amplificatori non è un vezzo ma un gesto necessario per creare quei suoni distorti per loro fondamentali. Instument, Translate e 2020 (dal secondo lavoro Images Du Futur) sono solo alcune delle tappe che il percorso di tenebre pulsanti che la band canadese regala sul palco.
Escono e poi rientrano per il bis, salutano e ringraziano tra i fischi (di approvazione). Alla prossima.

Teoricamente si tratta del tour per la presentazione del nuovo disco, Aladdin, colonna sonora del suo visionario film tutto cartapesta e magia, ma con Adam Green non si può mai sapere.
E infatti le canzoni a tema sono poche e del film (proiettato prima dell’inizio del concerto) ci sono lo sfondo del palco, i costumi dei musicisti, il capellino sulla sua testa.
La scelta del piccolo Biko come location è perfetta e sembra di essere nel salotto di casa in cui ti senti libero di bere, dire stronzate e rotolarti sul tappeto.
L’intro Fix My Blues è effettivamente la canzone che apre anche il film, poi subito roba vecchia come Bluebirds, Bunny Ranch e We’re Not Supposed To Be Lovers. Ciao milanesi (e non ciao Milano per una volta) che poi diventa ciao paesanos, tormentone della serata assieme alla riproposizione n volte di Kokomo.
Adam Green è Adam Green, cercare di spiegare cosa questo significhi con altre parole non rende meglio l’idea. Sul palco si agita come il pesciolino disegnato di un cartone animato e batte il cinque al suo pubblico almeno tre volte a canzone. Dopo neanche tre brani si è già buttato per uno stage diving, fa alzare le mani ed esegue canzoni su richiesta. Sorride, e se fosse per lui lo show durerebbe anche sei ore. C’è chi dice che vorrebbe adottarlo, chi essere nella sua testa. Poi a spiegarlo meglio arriva sul palco l’amico del cuore Francesco Mandelli che suona la chitarra in Party Line: una persona meravigliosa, dice, e grandi abbracci sinceri.
Il talento innato dell’enfant prodige un po’ scoppiato, il bambino strano che tutti fissano di cui ha ancora l’espressione, le droghe con cui si è divertito, le esperienze di ogni tipo che da più di quindici anni ormai continuano a nutrirne esistenza, canzoni, quadri e film. I wanna be a hippie / But I forgot how to love, canta da solo con la sua chitarra un attimo prima che torni la band alle sue spalle (Who’s Got The Crack, brano dei Moldy Peaches, primo indimenticabile progetto assieme a Kimya Dawson).
La natura è quella del clown con tutto il bello che il ruolo porta con sé: Adam Green vomita immagini, senza sosta, sputa colori, fa nascere mondi che non esistono partendo dall’unico che abbiamo. Per farlo usa la sua persona come filtro, senza filtri. Tu lo guardi e hai un po’ l’impressione di aver sbagliato tutto nella vita.
Quando su richiesta esegue I Wanna Die e il pubblico all’unisono pronuncia sicuro le parole I want to chose to die / And be buried with a rubik’s cube, sembra perplesso e anche un po’ spaventato da tanta convinzione; non sia mai che qualcuno lo pensi per davvero. Di certo non lui che da tutta e per tutta la vita ha deciso di giocare, con la musica e non solo.
Si prosegue con hit come Friends of Mine, Drugs e la sempre amata Jessica, fino ad arrivare al finale della festa, con il brano che chiude il film, con tanto di balletto (Interested in Music) che sfuma in Dance With Me.
Adam Green è il cazzone che sembra fare tutto a caso e invece no (i concerti possono sembrare una lunga improvvisazione ma la scaletta è seguita alla perfezione). Lo scappato di casa che avrebbe potuto fare una brutta fine e invece no. È il fratellone che ti presta l’appartamento e ti regala la festa un giorno e poi volendo quello dopo e il giorno dopo ancora.
E infatti l’Aladdin tour continua, con la data di questa sera al Covo Club.

Da segnalare l’ottima band che lo accompagna che non un semplice supporto ma un gruppo con vita propria: i Coming Soon. Francesi, in attività da una decina d’anni, talmente bravi che si prendono lo spazio per due loro brani a metà concerto. Psichedelici quanto basta anche loro quindi perfettamente à l’aise nell’accompagnare Green. Dopo il concerto ci hanno promesso che torneranno in Italia, e non sarebbe male.

SETLIST:
Fix My Blues
Bluebirds
Bunny Ranch
Novotel
We’re Not Supposed To Be Lovers
Me From Far Away
Buddy Bradley
Gemstones
Tropical Island
Nature of The Clown
Emily
No Legs
I Wanna Die
Never Lift a Finger
Cigarette Burn Forever
Carolina
Drugs
Morning After Midnight
Jessica
Here I am
Interested In Music
Dance With Me


[Report – Laura Antonioli    Photo – Francesca Di Vaio]

Passenger sceglie Milano per la data zero del suo tour mondiale, e Milano gliene è grata. Anche perché si tratta della prima volta con una band al completo in più di dieci anni di attività.
Michael David Rosenberg, già membro della band Passenger, scioltasi dopo un solo disco, della quale ha conservato il nome, ha un lungo e intenso passato da busker. Non solo non ne fa mistero, ma lo condivide con il pubblico che affolla il Fabrique, raccontando aneddoti e storie a riguardo.

Dopo l’apertura con l’ applaudito songwriter originario di Johannesburg Gregory Alan Isakov, la band arriva sul palco. Se non avete avuto abbastanza tempo per imparare i testi delle canzoni non è grave, scherza. Il settimo lavoro Young as the Morning, Old as the Sea è uscito da soli cinque giorni eppure i fan sembrano più che preparati.
Si apre con Everybody’s love e If you go e i cori già iniziano a farsi sentire. Poi subito spazio ad alcune old songs, quelle scritte prima di quella canzone nata sotto una stella più che buona che poi gli ha cambiato la vita. Prima di Let Her Go (che è let her, non let it), spiega, ci sono stati momenti nei quali la vita da artista di strada sembrava destinata a durare davvero per sempre. 27 parla proprio di questo: I write songs that come from the heart I don’t give a fuck if they get into the chart. Dal pensarla cosi ad avere 3.000 persone che cantano a memoria ogni parola in una lingua che non è la loro, di strada ne è passata, eppure non è servito vendere l’anima al diavolo né tanto meno cambiare la propria natura.

La ricetta è semplice: Passenger scrive (davvero con il cuore) testi semplici e delicati dando vita a episodi che di fatto sono assolutamente pop pur essendo in realtà folk. Ed è per questo che anche stasera nessuno smette per un secondo di cantare. L’avere una band alle spalle d’ora in poi gli darà la possibilità di giocare a fare la star, di divertirsi e magari di scrollarsi un po’ di dosso la malinconia che chi canta canzoni tristi in mezzo a una strada si porta per forza addosso. E infatti in scaletta di pezzi più movimentati ce ne sono, e coinvolgono sul serio (l’allegra catarsi di I Hate su tutte).
Ma quello di Passenger rimane un animo più che nobile, la sua è una musica pienamente sentimentale e la lunga introduzione emblematica al brano seguente lo conferma. Trattasi della storia di due persone incontrate in passato: un vecchio signore che aveva programmato una serie di viaggi in Europa da fare con l’adorata moglie e invece si è ritrovato costretto a viaggiare da solo dopo la sua improvvisa scomparsa e una bella sconosciuta che ha pianto davanti a lui le sue pene d’amore. A questi due incontri, fatti in strada mentre suonava in Danimarca, ha dedicato rispettivamente la prima e la seconda parte di Travelling Alone. La esegue solo con la sua chitarra, come ai vecchi tempi, e il silenzio in sala è totale, da lasciare spiazzati.
Si prosegue e ovviamente arriva anche Let Her Go, nemmeno a dirlo, cantata all’unisono, un altro scambio di chiacchiere anche sull’attualità (il mondo non ha affatto bisogno di persone come Donald Trump) Poi è il momento dell’uscita di scena ma a suon di battiti di mani ininterrotti, tutti si rifiutano di accettare la fine.
E infatti lui torna in scena per il bis. Una cover di Losing My Religion, poi Home e infine Holes ed è il momento dei saluti definitivi.

Il passaggio di questo cantautore dotato, autentico e pulito dimostra che in realtà spesso le cose sono più semplici di quanto si pensi. Basta eliminare le sovrastrutture, offrire quello che si ha cercando di farlo nella maniera migliore. Basta sicuramente per essere in pace con se stessi, e non è poco. Se poi le circostanze favorevoli (forse i pianeti allineati?) e un pizzico di fortuna aiutano, allora basta anche per ottenere il riscontro che si merita e, perché no, un po’ di riscatto. Basta per regalare al pubblico pagante una serata da raccontare a qualche amico a cui consigliare caldamente il live di Passenger per la prossima volta in cui ripasserà da qui.


SETLIST:

Somebody’s Love
If you Go
Life’s For The Living
When We Were Young
27
Anywhere
Everything
Travelling Alone
I Hate
Young As The Morning
Beautiful Birds
Let her Go
Losing My Religion (R.E.M)
Scare Away The Dark

Home
Holes

 

[Report: Laura Antonioli  –  Photo: Francesca Di Vaio]

SPAZIOROCK.IT FESTIVAL 2016:
STRATOVARIUS + POWERWOLF + LUCA TURILLI’S RHAPSODY +
IRON SAVIOR + DOMINE + ELVENKING + OVERTURES
live @ Live Club, Trezzo sull’Adda (Mi)
– sabato 24 settembre 2016 – 

 

OVERTURES

  • Michele Guaitoli – Vocals
  • Marco Falanga – Guitar
  • Luka Klanjscek – Bass
  • Andrea Cum – Drums
  • Alessia Scolletti – Backing Vocals
  • Nicoletta Rosellini (Kalidia) – Backing Vocals

Setlist:

  1. Repetance
  2. Artifacts
  3. Go(l)d
  4. Fly, Angel

ELVENKING

  • Damna – Vocals
  • Aydan – Guitar
  • Rafahel – Guitar
  • Jakob – Bass
  • Lethien – Violin
  • Symohn – Drums

Setlist:

  1. The Scythe
  2. Elvenlegions
  3. Moonbeam Stone Circle
  4. Grandier’s Funeral Pyre
  5. The Divided Heart
  6. The Loser

DOMINE

  • Morby – Vocals
  • Riccardo Paoli – Bass
  • Enrico Paoli – Guitar
  • Riccardo Iacono – Keyboards
  • Stefano Bonini – Drums

Setlist:

  1. Thunderstorm
  2. The Hurricane Master
  3. The Ride of the Valkyries
  4. Dragonlord (The Grand Master of the Mightiest Beasts)
  5. Defenders

IRON SAVIOR

  • Jan S. Eckert – Bass
  • Patrick Klose – Drums
  • Jan Bertram – Guitar
  • Piet Sielck – Guitar & Vocals

Setlist:

  1. Way Of The Blade
  2. Starlight
  3. Revenge Of The Bride
  4. Gunsmoke
  5. Beyond The Horizon
  6. The Savior
  7. Condition Red
  8. Heavy Metal Never Dies
  9. Atlantis Falling 

LUCA TURILLI’S RHAPSODY

  • Luca Turilli – Lead Guitar
  • Alessandro Conti – Vocals
  • Alex Landenburg – Drums
  • Patrice Guers – Bass
  • Dominique Leurquin – Guitar
  • Mikko Härkin – Keyboards
  • Emilie Ragni – Vocals

Setlist:

  1. Nova Genesis (Ad Splendorem Angeli Triumphantis)
  2. Il Cigno Nero
  3. Rosenkreuz (The Rose And The Cross)
  4. Land Of Immortals (Rhapsody Cover)
  5. Unholy Warcry(Rhapsody Cover)
  6. Tormento E Passione
  7. Prometheus
  8. Demonheart

POWERWOLF

  • Attila Dorn – Vocals
  • Matthew Greywolf – Guitar
  • Charles Greywolf – Guitar
  • Falk Maria Schlegel – Keyboards
  • Roel van Helden – Drums

Setlist:

  1. intro: Lupus Daemonis
  2. Blessed & Possessed
  3. Coleus Sanctus
  4. Amen & Attack
  5. Sacred & Wild
  6. Army Of The Night
  7. Resurrection By Erection
  8. Armata Strigoi
  9. Let There Be Night
  10. Werewolves Of Armenia
  11. Kreuzfeur
  12. Sanctified With Dynamite
  13. We Drink Your Blood
  14. Lupus Dei

STRATOVARIUS

  • Matias Kupiainen – Guitars
  • Timo Kotipelto – Vocals
  • Lauri Porra – Bass
  • Rolf Pilve – Drums
  • Jens Johansson – Keyboards

Setlist:

  1. Speed Of Light
  2. Eagleheart
  3. Phoenix
  4. Sos
  5. My Eternal Dream
  6. Against The Wind
  7. Paradise
  8. Wiil The Sun Rise
  9. Shine In The Dark
  10. Black Diamond
  11. Forever
  12. Unbreakable
  13. Hunting High And Low

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Kristian Matsson, il cantautore tascabile più alto sulla terra, ripassa dall’Italia, più precisamente sul palco del Fabrique di Milano, dopo l’improvviso scambio di location (precedentemente era stato annunciato al teatro Franco Parenti). Per aprire la serata, sceglie il connazionale e amico fraterno The Tarantula Waltz, all’anagrafe Markus Svensson. Un songwriter tra i tanti, si esibisce sul palco chitarra e voce e nonostante sia capace, fa pensare a quanto la svolta elettrica di Dylan a Newport cinquant’anni fa sia stata sacrosanta per salvarci dalla noia mortale del folk nudo e crudo, monotono e trascurabile.

La storia cambia quando sulla scena compare lui, Kristian Matsson, per tutti The Tallest Man on Heart da quando, nel 2006 pubblica il primo ep omonimo.
È piccolo e a fargli compagnia c’è solo il suo strumento, ma riempie perfettamente la scena con la sua sola presenza e di spazio libero non ne resta. Le suggestioni, i ritmi e le parole sono fragili eppure riesce ad essere incredibilmente maestoso. Apre lo show con East Virginia, traditional cantato anche da Joan Baez, tanto per mettere in chiaro le cose: anima, talento, folk e nient’altro.
Una passione feticista per le chitarre che cambia di canzone in canzone, plettri lanciati in aria che piovono come fossero coriandoli. Fields of Our Home dall’ultimo lavoro Dark Bird Is Home a cui seguono due brani dell’apprezzatissimo There’s No Leaving Now, datato 2012: suona sulle punte, si muove con la stessa grazia che pervade le sue canzoni. La voce è potentissima e a tratti nasale, proprio come quella di Dylan, giusto perché sfuggire al suo fantasma quando si decide di essere un folk-singer di questo tipo è praticamente impossibile.
La sala non è completa ma il pubblico è di affezionati veri e il calore si sente anche se lo stato è piuttosto contemplativo perché, davvero, non c’è bisogno di fare nulla. Solo guardarlo e lasciarsi trasportare dalla bellezza dell’esecuzione di pezzi quali I Won’t Be Found e Little Nowere Towns. L’età del pubblico è varia e può succedere che un ottantenne chieda timidamente agli uomini della security di poter oltrepassare un attimo le transenne per scattare qualche fotografia da tenere come ricordo.
Il menestrello intanto sorride e ringrazia a più riprese, poi racconta un aneddoto su un gruppo di fans che tempo fa ha invaso la sua proprietà nelle campagne svedesi. I’m a friendly guy but just don’t go to my house, o prima almeno avvertitemi, scherza per introdurre il recente singolo Rivers, che di paesaggi bucolici narra.
Dice di non aver scelto con cura per il pubblico milanese le sue chitarre più silenziose, sapendolo atto all’ascolto, poi si siede alla tastiera. Lo spettacolo prosegue con un’atmosfera sempre più raccolta che conduce alla parte finale del set che è un alternarsi di ballate soft (Time Of The Blue, There’s no Leaving Now) ed episodi coinvolgenti che chiamano il battito collettivo di mani (King of Spain). Fino all’ultimo dà tutto quello che ha, saltella si siede e si rialza, gioca con gli strumenti.
Si chiude con Dark Bird Is Home: I thought that this would last for a million years/ But now I need to go / Oh, fuck. Finale teatrale e perfetto, non fosse che il pubblico lo acclama e lui torna in scena per altri due brani. Si dice stanco della propria tristezza e per Il saluto definitivo sceglie quella di qualcun altro (quella scritta da Jackson Browne e cantata per prima da Nico, nello specifico) per una versione splendida di These Days, con tanto di chitarra small size color oro. La serata è finita e il piccolo principe del folk ha davvero lasciato il segno.

 

SETLIST:

East Virginia 

Fields of Our Home

1904

Criminals

The Wild Hunt

Darkness Of The Dream

I Won’t Be Found

The Gardener

Little Nowhere Towns

Love Is All

Rivers

The Sparrow & The Medicine

On Every Page

Time Of The Blue

There’s No Leaving Now

King of Spain

Dark is Bird Home

Sagres

These Days (Jackson Browne)


[Report: Laura Antonioli   –   Photo: Francesca Di Vaio]

 

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Seconda e ultima serata di un UNALTROFESTIVAL. Stavolta all’ingresso la coda è infinita, dando un’occhiata alle t-shirt si direbbe siano tutti qui per Editors e Ministri, e infatti il pezzo forte della serata sono proprio loro.

Ma è giusto e bello dare spazio a un po’ di musica altra, magari nuova e meno mainstream. Apre le danze Birthh, all’anagrafe Alice Bisi, 19 anni appena. Nonostante la giovane età, ha calcato diversi palchi europei e qui si è già vista in occasione del Mi Ami. Ha più di una cosa in comune con i Daughter, visti ieri sera sul palco qui a fianco, ossia intimismo e modalità di scrittura. A tratti anche la sua voce è simile a quella della cantante della band inglese anche se su un altro livello. A fare la differenza è la natura molto più elettronica delle sue composizioni (facile pensare a The xx e simili). L’esibizione è regolare e senza grandi slanci ; accompagnata dai suoi musicisti, presenta i brani del primo disco Born In The Woods, uscito a febbraio.

Sul main stage arriva la prima dei tre artisti internazionali della serata : Flo Morrisey. La cosa che colpisce vedendola entrare in scena con il suo abito verde è senza dubbio la bellezza angelica. Classe 1994, nata a Londra, inizia a comporre da adolescente e, dopo alcuni singoli, dà alle stampe nel 2015 il primo album Tomorrow Will Be Beautiful. Un modern folk il suo, caratterizzato da una grazia davvero notevole. Pizzica le corde della sua chitarra, canta d’amore e di sé con voce da usignolo: gorgheggi, yodeling e falsetto, chiudendo gli occhi si potrebbe anche pensare di essere finiti al Laurel Canyon negli anni ’70. Invece siamo a Segrate ma guarda caso il sole sta tramontando, l’atmosfera c’è. Show me, Pages of Gold e una cover del brano dei Tuxedomoon, In a Manner of speaking. Set breve ma intenso, voce e chitarra ma non serve altro, verrebbe da dire.

Birra alla mano, ci si sposta spinti da curiosità e si trova la sorpresa: Fil Bo Riva. Praticamente uno sconosciuto, ma vedendolo salire sul palco non si può non essere colti da epifania. Nato a Roma, vive a Berlino da anni e di anni ne ha solo 23. È uscito ad agosto il videoclip di Like Eye Did, ad anticipare la pubblicazione del suo ep di debutto If You Are Right, It’s Alright, che ascolteremo fra una ventina di giorni. Songwriter talentuoso, dotato di un timbro vocale straordinario che da solo basterebbe a garantire intensità e bellezza. Sul palco sono in due, belli e vestiti uguali, l’equipaggiamento è scarno (dichiarano di non avere un soldo): chitarra acustica, elettrica, bass drum, tamburello mezza luna. Suonano bene, benissimo una musica che si colloca a metà tra il folk e il soul, che è si malinconica ma anche estremamente dinamica. All’inizio il pubblico è scarso ma presto inizia ad avvicinarsi in massa, attirato dalla sua voce potente e che non merita paragoni scontati. Un’artista da non perdere di vista, senza ombra di dubbio.

Dici Magnolia, dici Ministri. E infatti eccoli tornare qualche mese dopo il set speciale in occasione del Mi Ami per celebrare il compleanno del loro primissimo album I soldi sono finiti. Stasera a compiere gli anni è Federico Dragogna (chitarra e penna), e Davide Autelitano (basso e voce), Michele Esposito (batteria) e Marco Ulcigrai (chitarra aggiunta) sono come sempre con lui. C’è qualcosa di strano, di diverso dal solito, chi li segue da anni non può non averlo notato. L’istinto animale che li anima dal vivo non manca, sia chiaro, eppure il live è sottotono. Parlano poco anzi per niente se non per introdurre Idioti (unico altro brano in scaletta da Cultura Generale), dedicata a chi non è riuscito a stare zitto, soprattutto sul web, in giorni drammatici come quelli del sisma che ha colpito il Paese. Cronometrare la polvere, Comunque, Spingere, Non mi conviene puntare in alto, i fan ovviamente rispondono a squarciagola perché il voler bene non si perde nei dettagli e non analizza al microscopio le mancanze. Forse i quattro sono stanchi, d’altronde sono in tour da quasi un anno e non si sono mai fermati, sarebbe comprensibile. Nel pubblico spunta Fil Bo riva che ovviamente non li conosce e sembra un po’ perplesso. C’è anche una giovane famiglia, padre madre e due figli piccoli, che canta ogni canzone. Vedere una bambina gridare parole parole pesanti come quelle di Tempi bui fa effetto (chissà se mamma gliele avrà spiegate senza renderla triste). Sicuramente rende bene l’idea di ciò che la musica dei Ministri rappresenta in una realtà come la nostra. Canzoni viscerali che servono a ricordare ciò che dovremmo essere anche se facciamo sempre più fatica. Non a caso si chiude con Abituarsi alla fine; speriamo solo non stiano faticando troppo anche loro a continuare a crederci, sarebbe un peccato perderli.

Ultimo atto di questa due giorni sono i britannici Editors. Quando si parla di loro le motivazioni per pagare il biglietto sono diverse e sempre valide. C’è chi vive un amore platonico non corrisposto per Tom Smith, chi è affezionato alla perfezione rock dei primi lavori, chi ha apprezzato il marcato ritorno ai suoni New Wave degli ultimi dischi (dal 2013 con lo strabiliante In This Light and On This Evening il solco tracciato era quello). Quella degli Editors è una band che da quindici anni ormai sa cambiare pelle ma dal vivo, come sempre, offre il meglio di sè. Si inizia con No Harm e la voce di Tom Smith, di bianco vestito, che squarcia il buio e le atmosfere cupe. Poi le più datate Smokers Outside The Ospital Dors e Rancig Rats, il pubblico canta, Smith e il bassista Russell Leetch, pollici in alto, approvano a più riprese. L’energia e il linguaggio del corpo del frontman sono ormai celebri e come sempre coinvolgenti. È un continuo alternarsi di atmosfere e stati d’animo: dal nero claustrofobico di Eat Raw Meat = Blood Drool alle aperture di A Ton of Love, all’esultanza da stadio per Papillon. Un’ora e mezza in cui nessun membro della band si risparmia, dando tutto ciò che può per ricambiare l’entusiasmo. Si chiude con Marching Orders (dall’ultimo LP In Dream) che parte piano per arrivare all’esplosione definitiva: otto lunghi minuti adatti per salutarsi come si deve, dandosi appuntamento alla prossima.

Per chi ancora non ha sonno, si continua con l’aftershow di Hunter/Game E Nowhere Music. Ancora una volta UNALTROFESTIVAL è stato bello, appuntamento all’anno prossimo.

[Report: Laura Antonioli  –  Foto: Francesca Di Vaio]