Tags Posts tagged with "DNA Concerti"

DNA Concerti

0 514

Brian Jonestown Massacre, mito assoluto della musica rock alternativa americana, arrivano in Italia per due date il 27 Settembre a Milano al Santeria Social Club e il 28 al Bronson di Ravenna per presentare Something Else l’album che la band ha pubblicato a Maggio e che nelle prossime settimane avrà addirittura un sequel

Ovviamente ci sarà l’opportunità di ascoltare molti brani del loro grande repertorio prodotto in venti anni di carriera, e a guidarci in questo viaggio a tutto tondo nella psichedelia rock sarà come sempre Anton Newcombe leader indiscusso della band.

 

Timber Timbre e Chris Cundy, foto di Stefano Marotta
Timber Timbre e Chris Cundy, foto di Stefano Marotta

Tra movimenti morbidi, voce calda e poche rare luci, una musica si manifesta al buio, viene plasmata lentamente e da una timida forma embrionale diventa, canzone dopo canzone, un gigante imbizzarrito, potente e misterioso.
E’ così che ricordo la performance dei Timber Timbre a cui ho assistito martedì 3 ottobre presso La Salumeria della Musica a Milano.

La band canadese in attività dal 2005 ha saputo conquistare album dopo album, ad oggi sei, una larga base di fan in tutto il mondo con il loro gusto dannatamente romantico, sensuale e profondo. Potrei nominare alcuni dei maestri ai quali va subito il ricordo ascoltando l’ultimo album in tour Sincerely, Future Pollution, come Nick Cave o David Bowie, per facilitare l’immaginazione.
Ma non basta, bisogna vivere quel brivido che scende lungo la schiena quando si avvertono le prime note di Hot Dreams, forse la loro canzone più nota, dell’omonimo album del 2014, quando sul palco sale il talentuoso sassofonista Chris Cundy, in tour con la band per aprire le date, a dare quel tocco di sensualità in più.

Un live vivido, sporco, graffiante ed ammaliante quello dei Timber Timbre. Non è andato tutto liscio come Taylor Kirk, il frontman di poche parole, avrebbe voluto, perché il trasporto su Hot Dreams è stato tanto da danneggiare il suo microfono che purtroppo limiterà le sue capacità vocali. Ma ogni brano scorre fluido, non si distingue un inizio da una fine, c’è solo lo scorrere di tante notti, ora più quiete, ora più oscure e frastornanti, ogni canzone ha nuova veste dal vivo.
Ad esempio il sax che fa padrone su Bleu Nuit ci trascina sulla scena di un crimine, come avvolti da un lungo impermeabile bagnato sul ciglio della strada di una città che di notte fa finta di dormire e ci scalda come l’abbraccio di un amante che da lungo ci attendeva. Freddo e calore di incontrano e si scontrano per rinnovare di volta in volta l’approccio del pubblico alla loro musica.

E’ così che in poco più di un’ora i Timber Timbre hanno saputo raccontarci la loro fatale visione del mondo dell’ultimo album ma anche farci viaggiare nella loro storia, senza tralasciare l’importanza di brani come Magic Arrow e Trouble Comes Knocking dell’album Timber Timbre del 2009 , o Do I Have Power, Woman e Black Water dell’acclamato Creep on Creepin’ On del 2011.

Cordiali saluti, dall’elegante band tutta al maschile che per una notte ha portato il pubblico di Milano nelle trame di un futuro inquinato di magia e ricordi vintage.

SETLIST:
Sincerely, Future Pollution
Sewer Blues
Velvet Gloves & Spit
Moment
Hot Dreams
Western Questions
Curtains!?
Until The Night Is Over
Magic Arrow
Grifting
Bleu Nuit
Do I Have Power
Woman
ENCORE:
Grand Canyon
Black Water
Trouble Comes Knocking

Taylor Kirk sul palco, foto di Stefano Marotta

Credits Giulia Razzauti Photography

Vasto è il piccolo borgo abruzzese, in provincia di Chieti, cornice di 4 giorni di musica, mare, buon cibo e ottima atmosfera: una bomboniera in mattoni e mosaici che con i suoi giardini lussureggianti, le sue ampie terrazze e le sue piccole vie labirintiche si affaccia sul Mare Adriatico.
Simbolo della città è la “Sirenetta” che erge su uno scoglio della morbida spiaggia sabbiosa di Vasto Marina – la statua di bronzo alta 3 metri realizzata nel 1979 dallo scultore Aldo D’Adamo raffigurante una bagnante. Da qui il nome del Siren festival.

Imprescindibile raccontare l’esperienza del festival senza la sua cornice e i suoi sapori, perché se c’è un’altra nota fondamentale da segnalare di questo territorio è la sua tradizione culinaria: dalla frittura di calamari agli arrosticini di pecora, tutte le ricette tipiche mirano a valorizzare la qualità e l’esclusività del prodotto primo a chilometro zero.

Con queste premesse ora è possibile immergerci nel mondo del Siren festival 2017, arrivato quest’anno alla sua quarta edizione: ben 50 concerti dislocati su 6 diversi palchi o location da giovedì 27 a domenica 30 luglio.
Le serate principali, più ricche e con più affluenza di pubblico, sono state quelle di venerdì e sabato.

Ad inaugurare la serata di venerdì 28 è stata la cantante e compositrice norvegiese Jenny Hval, che sullo sfondo di un romantico tramonto ha cantato del suo crudo, provocatorio e disilluso mondo femminile.
Dopo di lei, sullo stesso grande palco padrone di Piazza del Popolo, la piazza principale della città nonché terrazza di punta del belvedere vastese, è salito il giovane rapper Ghali, una delle voci più affermate dell’ormai radicata scena trap italiana. Un pubblico per lo più giovane, pronto ad accompagnare il rapper nei suoi ritornelli e a prendere la serata con la stessa sciallatezza che ha Ghali sul palco.

Nel frattempo all’interno dello Jager music stage del cortile D’Avalos suonano i losangelini Allah-Las seguiti dal veterano della musica elettronica Richard Kirk della storica band britannica Cabaret Voltaire che ripropone le tappe della carriera artistica del gruppo che fondò nel 1973: non solo suoni industrial e ventate di funk synth, che fecero dei Cabaret Voltaire uno dei gruppi più all’avanguardia di quel decennio, ma anche remix di pezzi elettronici a noi più vicini.

I più attesi della serata sono i Baustelle, che in occasione della pubblicazione del loro settimo album in studio L’amore e la violenza hanno intrapreso un never-ending-tour per l’Italia che però sembra essere per loro solo linfa ed energia: la scaletta che propongono è pressoché la medesima, molte le canzoni del nuovo album e alcune dei precedenti, ma ogni live merita la propria sorpresa e venerdì sera il pubblico del Siren festival ha potuto assistere a una delle più belle cover della famosa ballata Henry Lee di Nick Cave, emblema delle canzoni di “amore & violenza”. Con grande affetto e soddisfazione i tre e la loro live band di dandy lasciano il proprio pubblico al gran finale della serata: il dj set del famoso producer berlinese Apparat, all’interno del suggestivo cortile D’Avalos che a fatica ospitava tutti i ballerini della notte.

La giornata di sabato è tutta un’altra storia e non basterebbero le mie parole per raccontare tutto quello è successo. Dai miniconcert sul prato dei giardini D’Avalos degustando ottimi vini alle epiche sudate sui ritmi tropicali di Populous davanti Porta San Pietro, passando per street art e trap israeliana di Noga Erez, tanto forte e politicizzata quanto esile è la sua figura. Ghostpoet che riempie l’aria della sua calda voce, lasciando fluire un groove a tratti irrequieto a tratti introspettivo.. Una serie di ricordi che scorrono davanti gli occhi come le polaroid di Carl Brave e Franco 126, anche loro tra i protagonisti di questa magica serata insieme ad Anders Trentemøller.  Ma è su quest’ultimo e la sua band che vorrei spendere due parole in più, perché personalità come la sua sono ormai davvero rare.

A mezzanotte inoltrata il producer danese sale sul main stage insieme a tre componenti di una band che sembrano essere il suo immancabile braccio destro. Se è vero che la presenza di due chitarre, una batteria e una potente voce femminile fanno non poca differenza da un usuale concerto di musica elettronica, anche è vero che è lo stesso Trentemøller a guidare con estrema armonia e passione tutti gli altri: lui è al centro della scena ma non vuole atteggiarsi al divo quale potrebbe permettersi di essere. Sul palco c’è rispetto, ammirazione reciproca, forse amicizia, insomma c’è sintonia e tanta tanta energia. Assistere da vicino a questo live è una gioia non solo per le orecchie ma anche per gli occhi e il cuore, e la musica che proviene da lì non è semplice allenamento di dita e corde vocali, ascoltandola si entra a contatto con il mondo interiore, le ricerche artistiche e personali di un uomo che per la musica vive. Inutile forse aggiungere che secondo me Trentemøller rappresenta uno dei rari casi in cui la folgorazione live è pari quanto la rivelazione che si ha ascoltando l’LP.

Con questo immenso regalo il Siren festival si appresta a concludere la serata con il dj set di due nomi per cui l’appassionato di clubbing non ha bisogno di presentazioni: lo storico discografico della Mute Records Daniel Miller e il beniamino di casa Mattia Dionati.

Concludendo potrei dire che basterebbe una sola di queste serate per convincersi che il Siren festival vale tutte le voci e le leggende che si raccontano su di esso e, non solo, che meriterebbe maggiore visibilità.
Ma quasi preferisco tenere queste voci tra i pochi intimi che già lo conoscono e sperare che rimanga quel territorio incontaminato e prolifero che si è dimostrato in questa edizione e scommetto anche nelle precedenti. Perché diciamolo: il Siren di Vasto è di quei festival che diventano l’appuntamento da segnare nell’agenda dell’anno successivo e di quelli che ti fanno pentire di aver mancato gli anni precedenti!

Credits Giulia Razzauti Photography

Ph Giulia Razzauti, Siren Festival 2016
Ph Giulia Razzauti, Siren Festival 2016
Ph Giulia Razzauti, Siren Festival 2016

Manca poco più di un mese all’evento che in molti stiamo aspettando. Perché nonostante il Siren sia un festival giovane, arrivato quest’anno alla sua quarta edizione, si è già fatto amare da pubblico e critica, affermandosi tra i più importanti festival estivi italiani.

Nel cuore dell’estate, 28 e 29 luglio 2017, ospite del festival come ogni anno è l’incantevole borgo di Vasto (CH) che offre le sue spiagge, le sue terrazze e i suoi patrimoni culturali per un godimento a tutto tondo dell’incredibile line up che anche quest’anno fa venir sete a tutti gli amanti della scena musicale elettronica, pop, hip hop e rock internazionale ed italiana, in una convivenza a dir poco paradisiaca:

venerdì 28 luglio – Baustelle, Apparat, Allah-Las, Cabaret Voltaire, Ghali, Jenny Hval, Giorgio Poi, Emidio Clementi/Corrado Nuccini, Andrea Laszlo De Simone, Francobollo, Colombre

sabato 29 luglio – Trentemoller, Ghostpoet, Arab Strap, Carl Brave x Franco126, Noga Erez, Daniel Miller, Populous, Lucy Rose, Gazzelle, Gomma, Zooey

Dunque quest’estate armatevi di occhiali, creme solari e teli mare, ma soprattutto degli ultimi biglietti ancora disponibili del festival sui vari circuiti.

Un’ultima nota da segnalare è il concerto preview del festival. Non al mare, bensì in città, o meglio, alla periferia di Milano: al famoso Carroponte di Sesto San Giovanni, location di eventi festivi per il capoluogo lombardo, il 13 luglio si esibirà il gruppo losangelino tutto al femminile Warpaint che nella sua unica data italiana verrà a inebriare la nostra torrida estate padana.

Serata alternativa promossa da DNA Concerti nei nuovi spazi del Santeria Social Club  con il live set degli Sleaford Mods il duo di Nottingham che ritorna in Italia dopo una fugace apparizione di alcuni anni orsono nel periodo iniziale della loro carriera.

Dare una definizione della proposta musicale di Sleaford Mods è impresa ardua, considerando che il progetto di Jason Williamson e  Andrew Fearn si basa su una formula stile Dj set con il primo alla voce e il secondo alle basi ma che si discosta decisamente dal mondo Rap tradizionale sia per sonorità che per background musicale.

Provenienti dalle East Midlands Jason e Andrew diffondono una sorta di Rap Punk minimalista dove i testi politicamente scrorretti di Jason si calano sulle basi electro di Andrew Fearn che dal 2012 sostituì il primo producer degli Sleaford Mods. Giunti ormai ai 10 anni di carriera con altrettanti album ed Ep prodotti gli Sleaford Mods hanno allargato sempre più la cerchia di fans a livello internazionale tanto da arrivare ad essere considerati anche da grandi artisti per featuring e collaborazioni varie tra le quali citiamo i Prodigy e Leftfield .

Hanno recentemente pubblicato English Tapas disco contenente 12 nuove tracce  che dipingono uno straordinario affresco di parole in libertà con argomenti che spaziano dal sociale, all’alienazione e stress quotidiani al teatro dell’assurdo con sonorità magistralmente in simbiosi , refrain accattivanti in una formula ormai consolidata e originale.

Il palco del SSC di Milano si presenta scarno e come da tradizione Sleaford Mods troviamo  un piccolo tavolino e un solo microfono e ovviamente nessun strumento tradizionale. Andrew arriva per primo sul palco collegando semplicemente il Laptop al sistema di amplificazione e con un semplice clic sulla tastiera da inizio alle danze seguito a ruota da Jason che con accento inconfondibile inizia a rantolare le sue strofe .

L’esibizione è comunque coinvolgente seppur priva di strumentazione con Jason che incita il suo pubblico a ritmare e a scandire le tracce , con i suoi movimenti sincopati in stile marionetta “supportato” dal sorriso sardonico di Andrew che muove la testa a ritmo. Jason percepisce che il pubblico di Milano è dalla sua parte, si crea un feeling, una vibrazione interiore tra l’artista sul palco e il pubblico !

Praticamente l’intera playlist dell’ultimo disco viene snocciolata cominciando con Army Nights e il nuovo singolo B.H.S. per passare a Time Sands e Drayton Manored . Intercalate troviamo fantastiche chicche tratte dai dischi precedenti come la frenetica Job Seeker, o Tied up in Notz per non dimenticare Live Tonight o le cadenzate Bronx in a Six e Tarantula Deadly Cargo.

Un’ora abbondante di concerto con tre encore che il pubblico richiede a gran voce richiamando gli Sleaford sul palco con pogo finale di punkettara memoria  con Jason e Andrew a battere il cinque alla prima fila in un lungo saluto che fa presagire a prossime esibizioni nel nostro paese.

 

 

0 470

Si può esser artiste donne (e quindi minoranza) anche senza fare troppi proclami e ribadirlo ogni volta. Basta portare sul palco e mettere nella propria arte tutta la femminilità di cui si è capaci. Angel Olsen lo fa.

Fasciata in una tutina gessata, zatteroni e capelli raccolti, sale sul palco di una Salumeria Della Musica sold out. Viste le temperature, la stagione dei concerti al chiuso dovrebbe essere finita. Ma per una delle due sole date nel nostro paese della cantautrice di St. Louis (dopo quella al Covo di Bologna) ci si sacrifica felici. Angel sale sul palco per cantare se stessa e il suo essere donna. My Woman, il suo ultimo lavoro è uscito a fine 2016 per Jagjaguwar, segnandone la consacrazione definitiva.

Partenza soft con Heart Shaped Face, Angel sorride ai fotografi in prima fila, spensierata e ammiccante. La sua voce perfetta e l’altrettanto perfetta band che l’accompagna da inizio a un’ora e mezza di live intenso e pregno di autenticità. Fare i musicisti è un lavoro vero, non un passatempo, e le star internazionali che ci graziano della loro presenza nel nostro Paese ce lo ricordano come si deve.

I brani di My Woman ci sono quasi tutti (Shut up kiss me, Sister, Not Gonna Kill You) e si alternano con qualche canzone del precedente Burn Your Fire for No Witness (Unfucktheworld, Windows). Classe da vendere, tecnica consolidata e una presenza unica: non serve altro per garantire un live d’impatto.

Parte della stampa in questi anni ha deciso per lei che dovesse essere un cantautrice folk depressa ed eccessivamente introspettiva, una donna triste e complessata. Angel ha risposto con un disco che l’ha portata ad avvicinarsi al rock classico con qualche virata pop. Sul palco tutte questi elementi si mischiano con disarmante naturalezza.

Fa caldo, troppo caldo, ma nessuna delle persone in sala vorrebbe andarsene. Those Were the Days, Woman e una versione nuda e cruda di Acrobat (contenuta nell’ep di debutto) aprono la terza e ultima parte della serata. Angel chiede se qualcuno ha una casa con piscina in cui ci si possa tuffare tutti assieme di li a poco. Sarebbe bello, come bello è stato poter vedere una cantautrice come lei spogliarsi, metaforicamente parlando, e regalare al pubblico la sua essenza più profonda. Ma con leggerezza e disinvoltura.

In apertura, il set “breve ma dolce” dell’australiano Alex Cameron. Tra elettronica anni ’80 e pop glitterato, il suo alter ego è un entertainer fallito che si muove goffo su un sottofondo di sax e percussioni, e sogna di essere Marlon Brando. L’obbiettivo di Cameron è quello di esplorare il fallimento in musica. Il suo primo lavoro, Jumping The Shark è stato ristampato nel 2016 visto che tre anni prima nessuno l’aveva ascoltato.

Un personaggio che merita di essere scoperto, dal vivo come su disco. Sul finale dedica The Comeback a Angel Olsen che ha scelto di portarlo con lei in questo tour europeo.

Da parte del pubblico pagante (e sudato) , eterna gratitudine a entrambi, e tanti applausi.

Teoricamente si tratta del tour per la presentazione del nuovo disco, Aladdin, colonna sonora del suo visionario film tutto cartapesta e magia, ma con Adam Green non si può mai sapere.
E infatti le canzoni a tema sono poche e del film (proiettato prima dell’inizio del concerto) ci sono lo sfondo del palco, i costumi dei musicisti, il capellino sulla sua testa.
La scelta del piccolo Biko come location è perfetta e sembra di essere nel salotto di casa in cui ti senti libero di bere, dire stronzate e rotolarti sul tappeto.
L’intro Fix My Blues è effettivamente la canzone che apre anche il film, poi subito roba vecchia come Bluebirds, Bunny Ranch e We’re Not Supposed To Be Lovers. Ciao milanesi (e non ciao Milano per una volta) che poi diventa ciao paesanos, tormentone della serata assieme alla riproposizione n volte di Kokomo.
Adam Green è Adam Green, cercare di spiegare cosa questo significhi con altre parole non rende meglio l’idea. Sul palco si agita come il pesciolino disegnato di un cartone animato e batte il cinque al suo pubblico almeno tre volte a canzone. Dopo neanche tre brani si è già buttato per uno stage diving, fa alzare le mani ed esegue canzoni su richiesta. Sorride, e se fosse per lui lo show durerebbe anche sei ore. C’è chi dice che vorrebbe adottarlo, chi essere nella sua testa. Poi a spiegarlo meglio arriva sul palco l’amico del cuore Francesco Mandelli che suona la chitarra in Party Line: una persona meravigliosa, dice, e grandi abbracci sinceri.
Il talento innato dell’enfant prodige un po’ scoppiato, il bambino strano che tutti fissano di cui ha ancora l’espressione, le droghe con cui si è divertito, le esperienze di ogni tipo che da più di quindici anni ormai continuano a nutrirne esistenza, canzoni, quadri e film. I wanna be a hippie / But I forgot how to love, canta da solo con la sua chitarra un attimo prima che torni la band alle sue spalle (Who’s Got The Crack, brano dei Moldy Peaches, primo indimenticabile progetto assieme a Kimya Dawson).
La natura è quella del clown con tutto il bello che il ruolo porta con sé: Adam Green vomita immagini, senza sosta, sputa colori, fa nascere mondi che non esistono partendo dall’unico che abbiamo. Per farlo usa la sua persona come filtro, senza filtri. Tu lo guardi e hai un po’ l’impressione di aver sbagliato tutto nella vita.
Quando su richiesta esegue I Wanna Die e il pubblico all’unisono pronuncia sicuro le parole I want to chose to die / And be buried with a rubik’s cube, sembra perplesso e anche un po’ spaventato da tanta convinzione; non sia mai che qualcuno lo pensi per davvero. Di certo non lui che da tutta e per tutta la vita ha deciso di giocare, con la musica e non solo.
Si prosegue con hit come Friends of Mine, Drugs e la sempre amata Jessica, fino ad arrivare al finale della festa, con il brano che chiude il film, con tanto di balletto (Interested in Music) che sfuma in Dance With Me.
Adam Green è il cazzone che sembra fare tutto a caso e invece no (i concerti possono sembrare una lunga improvvisazione ma la scaletta è seguita alla perfezione). Lo scappato di casa che avrebbe potuto fare una brutta fine e invece no. È il fratellone che ti presta l’appartamento e ti regala la festa un giorno e poi volendo quello dopo e il giorno dopo ancora.
E infatti l’Aladdin tour continua, con la data di questa sera al Covo Club.

Da segnalare l’ottima band che lo accompagna che non un semplice supporto ma un gruppo con vita propria: i Coming Soon. Francesi, in attività da una decina d’anni, talmente bravi che si prendono lo spazio per due loro brani a metà concerto. Psichedelici quanto basta anche loro quindi perfettamente à l’aise nell’accompagnare Green. Dopo il concerto ci hanno promesso che torneranno in Italia, e non sarebbe male.

SETLIST:
Fix My Blues
Bluebirds
Bunny Ranch
Novotel
We’re Not Supposed To Be Lovers
Me From Far Away
Buddy Bradley
Gemstones
Tropical Island
Nature of The Clown
Emily
No Legs
I Wanna Die
Never Lift a Finger
Cigarette Burn Forever
Carolina
Drugs
Morning After Midnight
Jessica
Here I am
Interested In Music
Dance With Me


[Report – Laura Antonioli    Photo – Francesca Di Vaio]

0 429
PJ Harvey Milano, 23/10/2016 foto di Francesco Prandoni
PJ Harvey Milano, 23/10/2016 foto di Francesco Prandoni

La nostra eroina del rock inglese ha viaggiato tanto e a lungo per arrivare fino a noi.
Tra il 2011 e il 2014 attraversa le terre polverose e degradate, lacerate dalla guerra dell’Afghanistan e del Kosovo, raggiunge “la città dove vengono prese le decisioni riguardanti questi due Paesi”, la ricca e contraddittoria Washington DC, ed è tornata a casa, a registrare sotto gli occhi del pubblico al Somerset House di Londra. Il risultato di quest’esperienza, oltre al libro che raccoglie le sue poesie e le foto di Murphy The Hollow of The Hand, è un album di quelli che pesa, che vale e che scotta, corrosivo.

Si chiama The Hope Six Demolition Project, è stato pubblicato il 15 aprile 2016, è stato portato sui palchi dei più importanti festival musicali questa estate e ora viaggia in un tour autunnale europeo.

Il 23 ottobre è arrivato all’Alcatraz di Milano.

Lasciamo stare i convenevoli, PJ Harvey e la sua band di 9 uomini sono magnifici.
Proprio come i 10 magnifici eroi di un vecchio cartone animato anni ’80, ma attualissimi.
Entrano in scena tutti insieme, in marcia, uno dietro l’altro, ognuno col proprio strumento, interrompendo il lungo silenzio nel quale il pubblico era immerso da ore. Chain of Keys è perfetta per immolare questo momento. E’ un inizio solenne, marcato poi da The Ministry of Defence, seconda in scaletta, in cui le 9 eleganti presenze maschili sul palco rendono onore e giustizia al forte carisma della protagonista, coperta di una striscia di pelle nera che le fa da gonna e piume corvine sulla giaccia e tra i capelli.

The Hope Six Demolition Project trionfa sul palco: tutte le canzoni dell’album sono portate in scena in ordine sparso e prima che un altro pezzo possa cominciare la disposizione dei musicisti e il loro ruolo è cambiato, ognuno ha il proprio posto in prima fila accanto alla regina del rock. Si muovono, cantano e suonano in perfetta armonia, come un in ingranaggio complesso e preciso.
A sconvolgere infatti è la perfezione dell’esecuzione, come da album, ma anche la potenza e l’energia che solo un live può trasmettere.

Le performance di PJ Harvey sono di quelle che rimangono impresse per anni: le parole si uniscono ai gesti, la cantautrice diventa interprete e si riportano in scena le atmosfere e gli animi di ogni album le cui canzoni hanno un posto nella setlist.

I brani tratti dal precedente capolavoro Let England Shake, vincitore del Premio Mercury nel 2011, si inseriscono alla perfezione nello scenario di atrocità e ipocrisie raccontato da PJ e i suoi eroi.
Dalle parole di A Line in the Sand, a quelle di Medicinals, passando per The Words That Maketh Murder e The Glorious Land: è difficile non essere disarmati e colpiti dalla semplice schiettezza e crudità dei testi, immersi nella magnificenza del suono di fiati, percussioni, chitarre, battiti di mani e cori.

Ma un attimo dopo ci si ritrova catapultati nella plumbea solitudine di White Chalk, album del 2007, con When Under Ether e The Devil, tra le quali si inserisce lo struggente assolo di sax di Terry Edwards in Dollar Dollar, che dal vivo acquista qualcosa di magico e inaspettato.

C’è anche spazio per l’aggressivo punk rock dell’ormai lontano secondo album (Rid of Me, 1993) in un’unica ma imponente canzone che è 50ft Queenie, e per i grandi successi del passato Down by the Water e la titletrack di To Bring You My Love, cantate insieme al pubblico, che pende dalle grandi labbra di Polly. Rapito e stregato partecipa come da copione al coro e recita allucinato la filastrocca: “Little fish, big fish. swimming in the water. Come back here, man, gimme my daughter…”

Il gran finale spetta al mantrico gospel River Anacostia: il sipario architettonico alle spalle del palco scende piano, le luci si abbassano, i suoni si assottigliano e uniformano, rimangono solo le percussioni. Infine il mantra è recitato da tutti solo con le voci, anche dal pubblico: “Wade in the water, God’s gonna trouble the water..”, i nostri 10 magnifici eroi ora sono tutti in prima fila, gli uni accanto agli altri. Le luci si spengono e la salvezza sembra essere stata toccata con un dito.
Il ritorno sul palco per il bis non ha particolarmente colpito, lasciando i fan più accaniti leggermente delusi, ma non per questo il live non rimarrà un’esperienza unica per ogni suo spettatore.

 


 

SETLIST:
Chain of Keys
The Ministry of Defence
The Community of Hope
The Orange Monkey
A Line in the Sand
Let England Shake
The Words That Maketh Murder
The Glorious Land
Medicinals
When Under Ether
Dollar, Dollar
The Devil
The Wheel
The Ministry of Social Affairs
50ft Queenie
Down by the Water
To Bring You My Love
River Anacostia

ENCORE:
Near the Memorials to Vietnam and Lincoln
The Last Living Rose

0 360

Da sempre fuori dagli schemi, geniale e incredibilmente prolifico, Adam Green torna con il nono lavoro solista della sua carriera. L’artista è finalmente pronto a presentare dal vivo in Italia il suo progetto più complesso e affascinante Aladdin, ovvero la sua personale visione del classico de Le Mille e Una Notte.

Una versione moderna, poetica e colorata in cui è lui stesso il protagonista del racconto. Qui la lampada non è una lampada ma una stampante 3D, il pianeta subisce un cambio di sesso e la sua popolazione ristampa internet in versione analogica.
I 13 brani contenuti nella colonna sonora di Aladdin rimandano alle sonorità psichedeliche datate anni sessanta, mischiando folk funk e psichedelia, come sempre caratterizzati da quel tocco originale e anticonvenzionale che Green dona con naturalezza e maestria.

Aladdin non è il primo film realizzato dall’artista statunitense, da sempre appassionato all’arte visuale (diverse le personali con i suoi dipinti) e al filmmaking. In precedenza c’era stato The Wrong Ferarri, commeddia assurda interamente filmata con un iphone che vedeva protagonisti tra gli altri sempre Macaulay Culkin, Devendra Banhart, Sky Ferreira e l’amico fraterno Francesco mandelli.

In attività da quando aveva soli 17 anni, Adam Green assieme all’altra metà del duo Moldy Peaches (Kimya Dawson), è uno dei membri di spicco della scena newyokese anti folk fine anni ’90. Enyone Else But You, hit colonna sonora del film premio oscar Juno, vale al duo il numero uno della billboard. Da li in poi Green frequenta le classifiche europee a ripetizione, grazie a singoli quali Jessica, Emily e Morning After Midnight.

Aladdin arriva dopo tre anni di gestazione ed è il seguito del penultimo lavoro, datato 2013, realizzato a due mani con l’artista californiana Binki Shapiro.

 


Info: DNA concerti  /  Prevendite Mailticket

27 ottobre 2016 MILANO – BIKO
28 ottobre 2016 BOLOGNA – COVO

 

0 433
Apparat DJ tra i fumi del Dude Club
Dude Club 15/10/2016 tom.matteocci_videographer
Dude Club 15/10/2016 tom.matteocci_videographer

Ore di attesa che sembravano interminabili, lunghe file in cassa, al bar e in bagno per chi, la notte del 15 ottobre, era al Dude Club per il dj-set del beniamino tedesco dell’elettronica Sascha Ring, in arte Apparat.
Mentre nella piccola ed accogliente sala dell’Osservatorio Astronomico suonava l’australiano Harvey Sutherland,  ad intrattenerci fino alle 2 di notte in quella più grande e spoglia è stato il duo-project Jazz Madicine, dal sound detroitiano, abbastanza lontano dallo stile di Apparat, ma comunque funzionale a rendere questa sala più colma e calda.
Quando alla consolle arriva l’headliner, infatti, occorre qualche minuto per abituare il pubblico a qualcosa di totalmente diverso. Finalmente.
Nonostante questa volta Apparat non sia nelle vesti di cantante, musicista e producer con la sua straordinaria band, ha saputo dare un tocco personale e riconoscibile alla scelta dei remix portati sul set.
Il suo approccio sofisticato, intimo e sognante alla musica è emerso anche durante un dj-set di quelli che mantengono il pubblico giovane ed energico attaccato alle casse per ore senza mai né stancarsi né annoiarsi, con continue riprese di profondi bassi che smuovono il corpo fino alle viscere.
Un set variopinto di poco più di tre ore nel quale accanto ad immancabili, se non scontati, remix di alcuni brani del suo progetto parallelo, più famoso e mainstream, Moderat -come Bad Kingdom e Rusty Nails, picchi massimi di euforia in sala- ci sono state interessanti presenze, come la voce di Thom Yorke di Everything In Its Right Place e come quella orientaleggiante di voci femminili indiane, che conferma il carattere internazionale e ricercato del suo stile.
La soddisfazione del dj, a fine set e luci accese, si è rispecchiata in quella del suo pubblico danzerino, che non è voluto andare via fino a quando la security lo ha invitato ad uscire. Strette di mano, foto, sorrisi e scambi di sigarette con un ragazzo -si, di 38 anni, ma portati da dio- come uno di noi, che si trova semplicemente dall’altro lato della consolle: è stata questa la presenza di Sascha Ring al Dude Club, che di figure come lui e di musica come la sua ne sentiva il bisogno.

Apparat DJ tra i fumi del Dude Club
Apparat DJ tra i fumi del Dude Club

Sotto l’egida di DNA Concerti avremo un’occasione straordinaria di vedere dal vivo una band davvero interessante della nuova ondata Newyorkese i Parquet Courts o (Parkay Quarts) durante il prossimo weekend sia per il pubblico  bolognese (il 22 Ottobre al Covo) che per quello milanese il 23 Ottobre al Biko.

I Parquet Courts costituitisi poco più di 5 anni fa sono arrivati al loro 5 album da studio Human Peformance uscito nella primavera di quest’anno e rappresentano una ventata di novità  nella folta arena rock alternative d’oltreoceano.

Uno stile unico esce dal mixer  musicale dei Parquet Courts, che potrebbe contenere una parte di post punk alla Devo una degli indimenticabili Talking Heads e una dei bizzarri Cake . Testi interessanti che raccontano la scorrere frenetico della vita moderna e una produzione di grande spessore ci preannunciano dunque un grande live per il quartetto capitanato da Austin Brown e siamo sicuri che non rimarremo delusi !

Live report e galleria fotografica raccontati come sempre su Concertionline !

 

E’ un anno particolarmente eccitante per i numerosi fan di questa straordinaria artista inglese, iniziato con la pubblicazione del libro The Hollow Of The Hand, in collaborazione con il fotografo amico Seamus Murphy, che ha portato l’eclettica Polly Jean in Italia per il 22° Festival Internazionale di Poesia di Genova.
La stessa esperienza che ha dato vita al libro, cioè i 4 anni di viaggi tra Kosovo, Afghanistan e Washington DC, è espressa con l’intensità di una rocker dalla carriera quasi trentennale che non ha pari nell’album The Hope Six Demolition Project: uscito ad aprile e portato sui palchi dei numerosi festival ai quali Pj Harvey ha partecipato questa estate, ha già ricevuto il meritatissimo successo.
Ma ecco che arriva la notizia che a noi più interessa: tra le date del tour europeo, due sono questo mese in Italia.

23 ottobre 2016 Milano, Alcatraz

24 ottobre 2016 Firenze, Obihall

le cui prevendite si possono trovare nei maggiori circuiti online. C’è bisogno di dire altro..?