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Arto Lindsay

Uno dei pilastri della no wave newyorkese si è esibito nell'ex cinema pisano portando in scena un formidabile mix tra il Brasile (dove vive) e quella New York che lo ha reso leggenda

Può un concerto musicale essere bellissimo senza che venga suonata neppure una nota come si deve? Di fronte a questo paradosso, sappiate che la risposta può essere affermativa solo se vi chiamate Arto Lindsay e se avete fatto della vostra incapacità di suonare la chitarra in modo minimamente pulito o aggraziato, un’arte.

Lindsay è una vera e propria leggenda, uno dei pilastri della no-wave, uno capace di collaborare con Brian Eno e poi di produrre almeno tre dischi capolavoro di Caetano Veloso: è riuscito negli anni a coniugare il sound primitivo, viscerale dei DNA (sua prima band) che fecero impazzire Lester Bangs con il suo amore per il Brasile (dove risiede) e quelle dinamiche musicali (dalla bossa-nova ai classici di Jobim) estremamente melodiose e avvolgenti.

L’effetto che se ne ottiene è a dir poco straniante, ma ti dà l’idea di star assistendo a un rito, una performance poetica in cui ogni cosa è improvvisata eppure controllata, studiata. Arto Lindsay riesce ad essere fedele a se stesso pur continuando a mutare, a 65 anni, confermando di essere quello che già Brian Eno aveva intravisto in lui: un non-musicista geniale, padrone del proprio strumento e totalmente fuori da schemi pre-confezionati.

Unica pecca di una serata magica il pubblico del Lumiere, troppo spesso perso in disturbanti chiacchiericci e poco attento a quella che era a tutti gli effetti una performance artistica, più che un semplice concerto.

Peccato, non hanno forse capito la magnificenza di ciò che si trovavano ad ascoltare.