Recensioni concerti

I report dei più importanti concerti in Italia: band italiane e internazionali, rock, pop, elettronica, punk, alternative e molto altro altro ancora. Photogallery e recensioni, report e scalette del concerto, immagini, video e racconti di tutta la musica live in Italia.

Michael Gera, sciamanico, estatico, un direttore d’orchestra di nero vestito perfetto al comando dei suoi Swans: già solo con questa riga di testo si può comprendere la potenza e la forza evocativa della band americana, che nella sua seconda data italiana ha stregato il Teatro Manzoni di Bologna trasformandolo praticamente in un live club; dopo pochi pezzi Gera ha infatti invitato tutti ad alzarsi e accorrere sottopalco e così è stato, trasformando il concerto in qualcosa di intimo, di intenso di, semplicemente, splendido.

Gli Swans regalano quella che si può definire una vera e propria suite musicale, sfruttando il loro sound fatto di accelerazioni e cambi di ritmo, con la voce di Gera che è una vera e propria guida in mezzo alle distorsioni.

Impossibile non rimanere affascinati, rapiti da questa perfetta commistione di suoni, in una vera e propria celebrazione laica, un rito da vivere ad occhi chiusi ed orecchie spalancate: lunga vita a Michael Gera e ai suoi Swans!

SWANS@Teatro Manzoni – Bologna 05/11/2016

The Knot
Screen Shot
Cloud of Forgetting
Cloud of Unknowing
The Man Who Refused to Be Unhappy
The Glowing Man

Per quanto possa sembrare una via bizzarra, può capitare che per riappacificarsi con la purezza naïf del rock si possa anche passare dalle strade tortuose dell’elettronica. Quella in questione che compie il miracolo appartiene ai Suuns, band di Montreal che con il recente Hold/Still giunge al suo terzo album in studio (da considerare a parte c’è il disco in collaborazione con i Jerusalem in My Heart dell’anno scorso). I Suuns sono una band ibrida e la loro elettronica è ben lontana dall’essere fredda e impersonale proprio perché suonata con tutti gli strumenti del rock.
In un groviglio di cavi e pedaliere, i quattro prendono posto sul palchetto del Biko che a malapena li contiene. Si alzano le luci, a illuminare il loro nome scritto a caratteri gonfiabili sullo sfondo, e si parte.
Ben Shemie è il leader carismatico che riesce a catalizzare gli sguardi dei presenti, dal primo all’ultimo. Liam O’Neill alla batteria, Max Henry al basso e synth e Joseph Yarmush alla seconda chitarra fanno altrettanto.
Il loro è un approccio pienamente fisico che non può non chiamare il totale coinvolgimento del pubblico (compreso il bambino in prima fila che non smette di far ondeggiare la testa). Non serve setlist, non si parla di canzoni ma di un flusso unico e ininterrotto: suono che prima sfiora poi assorbe fino a fagocitare totalmente.
La voce di Shemie è il filo rosso che lega i vari cambi d’atmosfera sonora: aliena e in uno stato di tensione perenne, grazie alla ripetizione di poche e precise parole diventa essa stessa uno strumento, parte integrante del rumore. Persino la chitarra a un certo viene cambiata e diventa trasparente come se vedere gli strumenti non servisse.
Eppure nel buio, si riesce a scorgere tutti: Il corpo di Shemie, si muove sinuoso, il batterista picchia forte e senza sosta, il tastierista guarda il muro e gira su se stesso, Yarmush ha il volto completamente coperto dai lunghi capelli. Belli anche da vedere, insomma e, cosa più importante, tutti musicisti non improvvisati.
E’ come se, prendendo in prestito i passaggi di stato, durante il live dei Suuns si riesca a evitare lo stato liquido preferendo la sublimazione immediata, nonostante il genere che fanno lo richiederebbe.
Uno degli apici si ha durante l’esecuzione di Resistence, uno dei brani più emblematici dell’ultimo lavoro che condensa a pieno l’essenza della band: minimale, categorica, futuristica.
Il continuo avvicinare le chitarre agli amplificatori non è un vezzo ma un gesto necessario per creare quei suoni distorti per loro fondamentali. Instument, Translate e 2020 (dal secondo lavoro Images Du Futur) sono solo alcune delle tappe che il percorso di tenebre pulsanti che la band canadese regala sul palco.
Escono e poi rientrano per il bis, salutano e ringraziano tra i fischi (di approvazione). Alla prossima.

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Il comunicato che annuncia il concerto di Lisa Hannigan promette uno show speciale e intimo.
Nella sala del Fabrique sono state messe, su richiesta della stessa cantautrice, file di poltrone, per creare un ambiente più ordinato e meno dispersivo. Chi è qui conosce chi sta per salire sul palco ed è già nel mood.
Lisa presenta il suo terzo lavoro, At Swim, prodotto da Aaron Dessner dei The National. Un disco che è l’ennesima prova riuscita del suo percorso musicale solista, iniziato dopo la fine della simbiosi di vita che per anni l’ha legata a Damien Rice, l’uomo che sembrava essere, anche artisticamente, la sua anima gemella.

A portare silenzio e raccoglimento ci pensa prima di lei Heather Woods Broderick (sorella del polistrumentista Peter) che si esibisce da sola in una manciata di suoi brani prima alla chitarra elettrica poi alla tastiera. Minimale, rigorosa e discreta, saluta dicendo che tornerà sul palco per suonare con la band.
Ed ecco arrivare la protagonista, assieme ai suoi tre compagni (batteria, contrabbaso, tastiere): l’impianto è in realtà jazzistico anche se le definizioni  vogliono la Hannigan cantautrice folk. A voler ben vedere avrebbe potuto infatti esibirsi senza problemi al Blue Note, anche e soprattutto per la qualità tecnica che lei e i suoi musicisti garantiscono in scena.
Dopo Little Bird in solo, la scaletta prevede un’alternarsi di pezzi dai tre lavori che potrebbero benissimo sembrare lo stesso, per valore e coerenza. Pistachio, O Sleep, Prayer for The Dying, in un crescendo di grazia che ipnotizza il pubblico.

Lisa è incantevole e talmente gentile che ad ogni cambio di strumento (alterna chitarra e mandolino e ukulele) ringrazia il ragazzo dello staff che glielo porta. Dopo aver cantato il nuovo singolo, spiega che per girare il video ha dovuto imparare a cantare la canzone al contrario e ne fa sentire uno spezzone al pubblico. I sorrisi sono accennati, la voce leggerissima, quando parla le mani fluttuano come fossero ali di farfalla. E i presenti di fronte a una donna capace di diventare musa si innamorano, proprio come fece Damien, ora è più chiaro il perché.
La seconda parte del set è, se possibile, ancora più intensa, da Flowers in poi, con le incursioni elettriche di Heather Broderick, perfetta anche come seconda voce (Undertow a due è una perla), e il contrabbasso che diventa un basso. C’è spazio anche per la radiofonica What’ll I do, per la gioia degli spettatori che dopo tanto silenzio possono canticchiare e battere le mani. Lisa ringrazia, dice che passare dall’Italia è sempre delizioso (anche per il cibo), la sala ricambia: deliziosa è lei.

Dopo l’uscita tornano in scena in tre per regalare il coro di Anahorish e adesso davvero non resta che voce nuda a riempire l’atmosfera. A Sail chiude un concerto impeccabile, pulito e delicato.
Da cantautrice, Lisa si era dichiarata persa dopo un periodo un po’ buio e non troppo ispirato, e invece stasera ha dato al suo pubblico la conferma di essersi perfettamente ritrovata.


 

SETLIST

Little Bird
Ora
Pistachio
O Sleep
A Prayer For The Dying
Fall
Snow
Tender
Passanger
Flowers
We The Drowned
Lille
Undertow
Knots
What’ll I Do

Anahorish
Lo
A Sail

I Blues Pills, capitanati dalla frontman Elin Larsson, sono tornati lo scorso 19 ottobre a calcare un palco italiano, questa volta quello dell’Alcatraz di Milano (noi ve ne avevamo parlato qui). Per la loro terza volta quest’anno in Italia Elin e soci sono accompagnati da Stray Train e Kadavar.

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Lo show inizia puntuale alle ore 20.00 con la band slovena Stray Train: facce pulite e un rock easy listening per il vocalist Luka Lamut e la sua band (Niko Jug al basso, Viktor Ivanović alla batteria, Jure Golobič e Boban Milunović alle chitarre), che presentano il loro album “Just ‘cause you got the monkey off your back doesn’t mean the circus has left town”.

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L’atmosfera si scalda e i suoni si fanno piacevolmente più pesanti quando sul palco salgono i tedeschi Kadavar. Batteria al centro del palco e grossi ventilatori che muovono scenograficamente i lunghi capelli di Christoph “Tiger” Bartelt mentre percuote le pelli e quelli del suo compare Simon “Dragon” Bouteloup, al basso. Qui al centro dell’attenzione c’è la musica, inconfondibilmente teutonica, mentre le parti vocali di Christoph “Lupus” Lindemann (voce e chitarra del gruppo) passano un po’ in secondo piano. Il rock dei Kadavar preannuncia l’atmosfera retrò degli headliner della serata, con riff anni settanta e una componente blues sotto alla preponderante via di un robusto hard rock. Suono massiccio e “cattivo”, ispirazione anni settanta, un buon muro sonoro costruito live.

Questa la setlist della serata

Come Back Life
Pale Blue Eyes
Last Living Dinosaur
Living in Your Head
Broken Wings
Black Sun
Forgotten Past
The Old Man
Thousand Miles Away From Home
All Our Thoughts
Creature of the Demon

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Puntuali alle 22.30 salgono sul palco i Blues Pills. Elin Larsson, tutina nera di ispirazione anni settanta, bionda chioma al vento, sorriso raggiante e piedi scalzi, cattura subito l’attenzione del pubblico danzando e saltando sul brando di apertura, Lady In Gold, title track del loro nuovo album uscito lo scorso 5 agosto. La sua voce è pulita e potente, senza sbavature, mentre il suono della band è costruito dai meno scenici ma certamente abili Dorian Sorriaux alla chitarra, Zack Anderson al basso e André Kvarnström alla batteria, con l’aggiunta di Rickard Nygren, alle tastiere e alla chitarra ritmica. I quattro costruiscono un suono corposo, di inconfondibile ispirazione blues e vintage. Meno hard rock rispetto ai tedeschi Kadavar ma comunque potente e coinvolgente. Mentre i brani scorrono veloci Elin coinvolge il pubblico, sfiora le mani dei fan nelle prime file, saluta, sorride, riceve fiori e t-shirt che le vengono lanciate sul palco.

Dopo “Devil Man” la band si prende una pausa ed esce dal palco, Elin rientra e si siede alle tastiere per una versione intensa ed emozionante di “I Felt a Change”. Con “Rejection” e “Gone So Long” torna la band al completo e si conclude lo show dei Blues Pills. Elin Larsson, finito lo show, si ferma a firmare autografi e fare foto, godendosi l’abbraccio collettivo del suo pubblico. Band sicuramente interessante, di forte ispirazione anni settanta e blues, che è riuscita a coinvolgere un pubblico molto vario per età e gusti musicali (sotto al palco, non era difficile notare l’amante del blues dai capelli sale e pepe accanto a ragazzi ben più giovani, rapiti non solo dalla musica ma anche dalla indubbia bellezza e presenza scenica della frontman).  I Blues Pills meriterebbero senza dubbio più attenzione da parte del pubblico nostrano, una attenzione che però stanno egregiamente riuscendo a guadagnarsi mano a mano, a suon di live. Chi non ha mancato l’appuntamento con il blues rock però, quella sera, si è decisamente divertito.

Questa la setlist del Blues Pills:

Lady In Gold
Little Boy Preacher
Bad Talkers
Won’t Go Back
Black Smoke
Ain’t No Change
Little Sun
Elements and Things
You Gotta Try
Bliss
Highclass Woman
Devil Man

Encore:

I Felt A Change
Rejection
Gone So Long

Teoricamente si tratta del tour per la presentazione del nuovo disco, Aladdin, colonna sonora del suo visionario film tutto cartapesta e magia, ma con Adam Green non si può mai sapere.
E infatti le canzoni a tema sono poche e del film (proiettato prima dell’inizio del concerto) ci sono lo sfondo del palco, i costumi dei musicisti, il capellino sulla sua testa.
La scelta del piccolo Biko come location è perfetta e sembra di essere nel salotto di casa in cui ti senti libero di bere, dire stronzate e rotolarti sul tappeto.
L’intro Fix My Blues è effettivamente la canzone che apre anche il film, poi subito roba vecchia come Bluebirds, Bunny Ranch e We’re Not Supposed To Be Lovers. Ciao milanesi (e non ciao Milano per una volta) che poi diventa ciao paesanos, tormentone della serata assieme alla riproposizione n volte di Kokomo.
Adam Green è Adam Green, cercare di spiegare cosa questo significhi con altre parole non rende meglio l’idea. Sul palco si agita come il pesciolino disegnato di un cartone animato e batte il cinque al suo pubblico almeno tre volte a canzone. Dopo neanche tre brani si è già buttato per uno stage diving, fa alzare le mani ed esegue canzoni su richiesta. Sorride, e se fosse per lui lo show durerebbe anche sei ore. C’è chi dice che vorrebbe adottarlo, chi essere nella sua testa. Poi a spiegarlo meglio arriva sul palco l’amico del cuore Francesco Mandelli che suona la chitarra in Party Line: una persona meravigliosa, dice, e grandi abbracci sinceri.
Il talento innato dell’enfant prodige un po’ scoppiato, il bambino strano che tutti fissano di cui ha ancora l’espressione, le droghe con cui si è divertito, le esperienze di ogni tipo che da più di quindici anni ormai continuano a nutrirne esistenza, canzoni, quadri e film. I wanna be a hippie / But I forgot how to love, canta da solo con la sua chitarra un attimo prima che torni la band alle sue spalle (Who’s Got The Crack, brano dei Moldy Peaches, primo indimenticabile progetto assieme a Kimya Dawson).
La natura è quella del clown con tutto il bello che il ruolo porta con sé: Adam Green vomita immagini, senza sosta, sputa colori, fa nascere mondi che non esistono partendo dall’unico che abbiamo. Per farlo usa la sua persona come filtro, senza filtri. Tu lo guardi e hai un po’ l’impressione di aver sbagliato tutto nella vita.
Quando su richiesta esegue I Wanna Die e il pubblico all’unisono pronuncia sicuro le parole I want to chose to die / And be buried with a rubik’s cube, sembra perplesso e anche un po’ spaventato da tanta convinzione; non sia mai che qualcuno lo pensi per davvero. Di certo non lui che da tutta e per tutta la vita ha deciso di giocare, con la musica e non solo.
Si prosegue con hit come Friends of Mine, Drugs e la sempre amata Jessica, fino ad arrivare al finale della festa, con il brano che chiude il film, con tanto di balletto (Interested in Music) che sfuma in Dance With Me.
Adam Green è il cazzone che sembra fare tutto a caso e invece no (i concerti possono sembrare una lunga improvvisazione ma la scaletta è seguita alla perfezione). Lo scappato di casa che avrebbe potuto fare una brutta fine e invece no. È il fratellone che ti presta l’appartamento e ti regala la festa un giorno e poi volendo quello dopo e il giorno dopo ancora.
E infatti l’Aladdin tour continua, con la data di questa sera al Covo Club.

Da segnalare l’ottima band che lo accompagna che non un semplice supporto ma un gruppo con vita propria: i Coming Soon. Francesi, in attività da una decina d’anni, talmente bravi che si prendono lo spazio per due loro brani a metà concerto. Psichedelici quanto basta anche loro quindi perfettamente à l’aise nell’accompagnare Green. Dopo il concerto ci hanno promesso che torneranno in Italia, e non sarebbe male.

SETLIST:
Fix My Blues
Bluebirds
Bunny Ranch
Novotel
We’re Not Supposed To Be Lovers
Me From Far Away
Buddy Bradley
Gemstones
Tropical Island
Nature of The Clown
Emily
No Legs
I Wanna Die
Never Lift a Finger
Cigarette Burn Forever
Carolina
Drugs
Morning After Midnight
Jessica
Here I am
Interested In Music
Dance With Me


[Report – Laura Antonioli    Photo – Francesca Di Vaio]

Una presenza lunare, una vera e propria regina rock, paragonabile per presenza scenica solo a Patti Smith, probabilmente: PJ Harvey plana all’Obihall di Firenze direttamente dalle stelle e, semplicemente, incanta.

Ti sfiora con i suoi versi, te li porge con gesti sciamanici e ti conduce nel suo universo, un universo popolato di creature inquiete e affascinanti, come inquieta e affascinante è lei, fasciata in un mini abito nero e con una corona in testa che la rende, se possibile, ancora più sensuale: una vera e propria vestale del rock.

A completare la scena una band che più di una band è un’orchestra, in cui spiccano i talenti di Mick Harvey, dell’immancabile John Parish, scudiero fedele di Polly Jean, e dei nostri (quanto orgoglio in questo aggettivo) Enrico Gabrielli (ovazione fortissima per lui, toscano di Arezzo, a fine concerto) e Alessandro “Asso” Stefana.

Da “The Community of Hope” a “The wheel” (per citare pezzi freschi ma destinati a diventare classici) fino a “Let England Shake” o “Down by the water” il live è magnetico, ti tiene incollato, ti devasta emotivamente ed è una vera goduria per l’udito, con suoni assolutamente perfetti che esaltano ogni sfumatura, ogni colore della musica di Polly Jean, arricchita da versi che sembrano poesie, più che canzoni.

L’apoteosi di “To bring you my love” è solo l’apice di un live che rimarrà per anni nella memoria del popolo fiorentino (e non) che ha avuto la fortuna di assistervi, riempiendo l’Obihall fino all’orlo.

PJ HARVEY SETLIST – FIRENZE 24/10/2016

Chain of Keys
The Ministry of Defence
The Community of Hope
The Orange Monkey
A Line in the Sand
Let England Shake
The Words That Maketh Murder
The Glorious Land
Written on the Forehead
To Talk to You
Dollar, Dollar
The Devil
The Wheel
The Ministry of Social Affairs
50ft Queenie
Down by the Water
To Bring You My Love
River Anacostia

Encore:
Working for the Man
Is This Desire?

Magnifica serata al Biko per il concerto dei Parquet Courts che come da pronostico hanno confermato la loro verve e capacità di coinvolgimento del nutrito pubblico accorso in loro onore.

Il giovane quartetto di NY ha dimostrato se ancora ce ne fosse bisogno di essere una delle realtà più fresche della nuova ondata Indie Rock Newyorkese, che affonda le radici negli anni ottanta e novanta, traendo linfa vitale ed ispirazione da gloriosi campioni come Talking Heads , Devo e Cake.

Il garage rock energico dei PQ è declinato in una forma apparentemente semplice fatta di 2 chitarre (Andrew Savage e Austin Brown ) che si dividono equamente anche il compito di vocalist, e la classica sezione ritmica composta dal basso di Sean Yeaton e dalla batteria di Max Savage.

I Parquet Courts hanno alle spalle una giovane carriera che li ha già portati agli onori della critica con una prolifica produzione di  cinque dischi in studio, circa uno all’anno, e una lunghissima serie di acclamati live .

Una ventina i brani eseguiti ieri sera in una sequenza senza soluzione soluzione di continuità che ha pescato equamente da tutti i loro dischi privilegiando ovviamente l’ultimo lavoro Human Performance datato Aprile 2016 . 3d7f0f9d

L’inizio è travolgente con Ducking and Dodging e i due singoli Dust e Human Performance dove si ha la netta sensazione di una grande coesione tra gli elementi della band con i due vocalist  Andrew e Austin che si alternano e a volte si sovrappongono mostrando rispettivamente un lato ruvido e uno più morbido dell’interpretazione.

I vocalizzi dei 2 a volte ricordano quelli del grande David Byrne dei mitici Talking Heads e volutamente possono arrivare al limite del fuori scala al servizio di una melodia che può passare dalla rabbia del garage punk per arrivare alle soglie del country rock.

E così tra i brani tratti da Human Performance ascoltiamo in sequenza il country style di Outside e la bizzarre  I was just here e Paraphrased che mostrano il lato Devo  dei Parquet Courts o la sognante Steady on My mind.

Il ritmo di Max alla batteria accellera con le tracce prese dal primo disco  Light Up Gold  come Stoned and Starving o Master of My craft.  Bellissima la “Prison Style di Sunbathing Animal con una spruzzata di Folsom Prison Blues del mitico Jonny Cash .

Nella parte finale del live una bellissima western style Berling Got Blurry 

e la cavalcata arrembante di  Content Nausea dove Andrew Savage non finisce di stupire con il suo impossessarsi del microfono e la sua chitarra tagliente in un travolgente delirio rock.

Mancano all’appello alcune hit che ci saremmo aspettati di ascoltare almeno negli encore ma che in ogni caso non tolgono nulla alla grande serata dei Parquet Courts.

 

 

 

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Stavolta a decidere di aprire il loro tour dall’Italia sono i The Veils, che scelgono il palco del Serraglio per presentare l’ultimo lavoro Total Depravity. Il quinto disco della band, uscito il 26 agosto, è strabiliante da diversi punti di vista. Composto quasi interamente in una stanza buia e poco aerata dell’East London (poi registrato in più luoghi, tra cui Casa Lynch), è un disco claustrofobico, cupo e disturbante e dal vivo la formazione australiana riesce a renderlo in tutta la sua pienezza.
Si parte con la perfezione totale di Here Comes The Dead e Axoloti ed è subito chiaro che il concerto proseguirà senza la minima sbavatura fino all’ultima canzone. Finn Andrews saluta e ringrazia. Con l’immancabile cappello nero a tesa larga, in scena è una strana creatura a metà tra la versione migliore del David Byrne predicatore allucinato e l’essere più pacato del mondo. La sua voce talmente perfetta da sembrare aliena porta in vita le storie degli stani personaggi che popolano il disco (Low Lays The Devil e Swimming With Crocodiles). Ecco arrivare la prima delle incursioni dei brani tratti da Nux Vomica, secondo album della band, datato 2006: la title track regala il primo vero momento sporco della serata, con la voce di Andrews che si spezza e l’andamento che si fa dapprima sincopato per poi esplodere a più riprese.
Si tratta di una serata speciale, spiega, la prima in cui suoniamo di nuovo assieme dopo un po’ di tempo. L’escalation claustrofobica e strisciante prosegue e trova il primo apice con l’esecuzione di Total Depravity, l’episodio decisamente più new wave di tutto il disco che dal vivo riesce ad essere ancora più disturbato. D’altronde la Depravazione Totale ha a che fare con il vizio che corrompe la natura umana, condizione da cui Andrews sembra oggi più che mai essere affascinato.
C’è spazio per brani più convenzionali (Lodin & Iron, Not Yet) prima della lisergica King of Chrome, racconto nero con protagonista un camionista psicopatico, narrato con il tono di un sermone per comunicarci chissà quale inquietante morale.
Il gruppo esce di scena e poco dopo il frontman rientra da solo, per regalare un momento più intimo con tanto di brano a richiesta dal pubblico che prova ad eseguire nonostante non lo ricordi bene (ero davvero giovane quando l’ho scritto). Recuperati gli altri, ci si avvia verso la conclusione che diventa definitiva con Jesus For The Jugular (sempre da Nux Vomica). Un lampo di luce rossa riempie la stanza, acceca i presenti poi si spegne e il palco è vuoto: degna conclusione di un live allucinato e allo stesso tempo raffinatissimo.
Non sappiamo mai bene cosa andremo a suonare, facciamo una manciata di cose sperando vada per il meglio, aveva detto poco prima di salutare. E per il meglio è andata, decisamente.


 

SETLIST:

Here Come The Dead
Axoloti
Do Your Bones Glow at Night
Low Lays The Devil
Swimming With The Crocodiles
Nux Vomica
House of Spirits
The Pearl
A Bit on The Side
Total Depravity
Lodin & Iron
Not Yet
King of Chrome

The Tide That Left & Never Came Back
In The Nightfall
Advice for Young Mothers to Be
Calliope!
Jesus For The Jugular

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Esplosivi. Questo è indubbiamente l’unico aggettivo possibile per la band guidata da Simon Neil, che ha letteralmente infiammato l’Obihall nella sua unica data italiana di questo 2016.

Si parte subito sparati con “Wolves of Winter” e Simon, James e Ben dimostrano di essere in formissima, di fronte a un teatro stracolmo pronto a sudare di fronte alle loro schitarrate: “Sounds like balloon”, “Biblical”, “Howl”, non c’è un attimo di respiro tra suoni, luci e colori vivissimi. E’ impossibile stare fermi e non saltare, ballare, scontrarsi, in una festa collettiva che lascerà magari qualche livido e qualche maglietta impregnata di sudore, da conservare magari come “trofeo”.

La bellezza di “Black Chandelier” arriva poco prima del punk alla “Blink 182” di “That golden rule”, pezzo sempre amatissimo.

Tutto il live è una sequela di emozioni, una cavalcata senza esclusione di colpi, senza rallentamenti: i Biffy Clyro inanellano alla fine 26 brani, una vera e propria rarità di questi tempi assistere a una scaletta tanto lunga e senza cali di tensione o di ritmo.

I tre ragazzi scozzesi si confermano una delle migliori live band che potrete vedere se amate il rock di questi tempi. E fortunatamente in Italia avrete altre occasioni nel 2017 per vederli: il 2 febbraio al Fabrique di Milano, il 6 febbraio all’Atlantico di Roma ed il 7 febbraio al Gran Teatro Geox di Padova (prevendite già attive)

BIFFY CLYRO SETLIST FIRENZE 20/10/2016

Wolves of Winter
Living Is a Problem Because Everything Dies
Sounds Like Balloons
Biblical
Spanish Radio
Howl
In the Name of the Wee Man
Bubbles
Herex
Black Chandelier
Friends and Enemies
That Golden Rule
Re-Arrange
Wave Upon Wave Upon Wave
Folding Stars
Medicine
Different People
Mountains
On a Bang
9/15ths
Animal Style
Many of Horror
Whorses

Encore:
The Captain
People
Stingin’ Belle

Una stanza nera, con un grande striscione con la scritta Nothing (anzi Nothin, visto che lo striscione è così grande che non c’è spazio per la g), una stanza stracolma di gente: questo è lo scenario, minimale ma perfetto, per la band di Domenic Palermo in quel di Bologna.

I quattro musicisti arrivano al Covo Club per la seconda delle tre date italiane del tour di “Tired of Tomorrow” e, letteralmente, spaccano: suono essenziale ma potente, chitarre shoegaze e percussioni che ammiccano al metal, la sala è letteralmente in visibilio.

Dai pezzi ormai classici del primo disco “Guilty of Everything”, fino ai brani più recenti, è una cavalcata senza sosta lunga oltre un’ora; un live passionale, sudato, di quelli che fanno venir voglia di fare head banging e che caricano.

I Nothing si dimostrano una delle migliori live band sulla scena mondiale e suonare in un luogo “sacro” come il Covo sa, appunto, di consacrazione: che sia l’inizio di un’ascesa verso palcoscenici ben più ampi?

Passenger sceglie Milano per la data zero del suo tour mondiale, e Milano gliene è grata. Anche perché si tratta della prima volta con una band al completo in più di dieci anni di attività.
Michael David Rosenberg, già membro della band Passenger, scioltasi dopo un solo disco, della quale ha conservato il nome, ha un lungo e intenso passato da busker. Non solo non ne fa mistero, ma lo condivide con il pubblico che affolla il Fabrique, raccontando aneddoti e storie a riguardo.

Dopo l’apertura con l’ applaudito songwriter originario di Johannesburg Gregory Alan Isakov, la band arriva sul palco. Se non avete avuto abbastanza tempo per imparare i testi delle canzoni non è grave, scherza. Il settimo lavoro Young as the Morning, Old as the Sea è uscito da soli cinque giorni eppure i fan sembrano più che preparati.
Si apre con Everybody’s love e If you go e i cori già iniziano a farsi sentire. Poi subito spazio ad alcune old songs, quelle scritte prima di quella canzone nata sotto una stella più che buona che poi gli ha cambiato la vita. Prima di Let Her Go (che è let her, non let it), spiega, ci sono stati momenti nei quali la vita da artista di strada sembrava destinata a durare davvero per sempre. 27 parla proprio di questo: I write songs that come from the heart I don’t give a fuck if they get into the chart. Dal pensarla cosi ad avere 3.000 persone che cantano a memoria ogni parola in una lingua che non è la loro, di strada ne è passata, eppure non è servito vendere l’anima al diavolo né tanto meno cambiare la propria natura.

La ricetta è semplice: Passenger scrive (davvero con il cuore) testi semplici e delicati dando vita a episodi che di fatto sono assolutamente pop pur essendo in realtà folk. Ed è per questo che anche stasera nessuno smette per un secondo di cantare. L’avere una band alle spalle d’ora in poi gli darà la possibilità di giocare a fare la star, di divertirsi e magari di scrollarsi un po’ di dosso la malinconia che chi canta canzoni tristi in mezzo a una strada si porta per forza addosso. E infatti in scaletta di pezzi più movimentati ce ne sono, e coinvolgono sul serio (l’allegra catarsi di I Hate su tutte).
Ma quello di Passenger rimane un animo più che nobile, la sua è una musica pienamente sentimentale e la lunga introduzione emblematica al brano seguente lo conferma. Trattasi della storia di due persone incontrate in passato: un vecchio signore che aveva programmato una serie di viaggi in Europa da fare con l’adorata moglie e invece si è ritrovato costretto a viaggiare da solo dopo la sua improvvisa scomparsa e una bella sconosciuta che ha pianto davanti a lui le sue pene d’amore. A questi due incontri, fatti in strada mentre suonava in Danimarca, ha dedicato rispettivamente la prima e la seconda parte di Travelling Alone. La esegue solo con la sua chitarra, come ai vecchi tempi, e il silenzio in sala è totale, da lasciare spiazzati.
Si prosegue e ovviamente arriva anche Let Her Go, nemmeno a dirlo, cantata all’unisono, un altro scambio di chiacchiere anche sull’attualità (il mondo non ha affatto bisogno di persone come Donald Trump) Poi è il momento dell’uscita di scena ma a suon di battiti di mani ininterrotti, tutti si rifiutano di accettare la fine.
E infatti lui torna in scena per il bis. Una cover di Losing My Religion, poi Home e infine Holes ed è il momento dei saluti definitivi.

Il passaggio di questo cantautore dotato, autentico e pulito dimostra che in realtà spesso le cose sono più semplici di quanto si pensi. Basta eliminare le sovrastrutture, offrire quello che si ha cercando di farlo nella maniera migliore. Basta sicuramente per essere in pace con se stessi, e non è poco. Se poi le circostanze favorevoli (forse i pianeti allineati?) e un pizzico di fortuna aiutano, allora basta anche per ottenere il riscontro che si merita e, perché no, un po’ di riscatto. Basta per regalare al pubblico pagante una serata da raccontare a qualche amico a cui consigliare caldamente il live di Passenger per la prossima volta in cui ripasserà da qui.


SETLIST:

Somebody’s Love
If you Go
Life’s For The Living
When We Were Young
27
Anywhere
Everything
Travelling Alone
I Hate
Young As The Morning
Beautiful Birds
Let her Go
Losing My Religion (R.E.M)
Scare Away The Dark

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Holes

 

[Report: Laura Antonioli  –  Photo: Francesca Di Vaio]

SPAZIOROCK.IT FESTIVAL 2016:
STRATOVARIUS + POWERWOLF + LUCA TURILLI’S RHAPSODY +
IRON SAVIOR + DOMINE + ELVENKING + OVERTURES
live @ Live Club, Trezzo sull’Adda (Mi)
– sabato 24 settembre 2016 – 

 

OVERTURES

  • Michele Guaitoli – Vocals
  • Marco Falanga – Guitar
  • Luka Klanjscek – Bass
  • Andrea Cum – Drums
  • Alessia Scolletti – Backing Vocals
  • Nicoletta Rosellini (Kalidia) – Backing Vocals

Setlist:

  1. Repetance
  2. Artifacts
  3. Go(l)d
  4. Fly, Angel

ELVENKING

  • Damna – Vocals
  • Aydan – Guitar
  • Rafahel – Guitar
  • Jakob – Bass
  • Lethien – Violin
  • Symohn – Drums

Setlist:

  1. The Scythe
  2. Elvenlegions
  3. Moonbeam Stone Circle
  4. Grandier’s Funeral Pyre
  5. The Divided Heart
  6. The Loser

DOMINE

  • Morby – Vocals
  • Riccardo Paoli – Bass
  • Enrico Paoli – Guitar
  • Riccardo Iacono – Keyboards
  • Stefano Bonini – Drums

Setlist:

  1. Thunderstorm
  2. The Hurricane Master
  3. The Ride of the Valkyries
  4. Dragonlord (The Grand Master of the Mightiest Beasts)
  5. Defenders

IRON SAVIOR

  • Jan S. Eckert – Bass
  • Patrick Klose – Drums
  • Jan Bertram – Guitar
  • Piet Sielck – Guitar & Vocals

Setlist:

  1. Way Of The Blade
  2. Starlight
  3. Revenge Of The Bride
  4. Gunsmoke
  5. Beyond The Horizon
  6. The Savior
  7. Condition Red
  8. Heavy Metal Never Dies
  9. Atlantis Falling 

LUCA TURILLI’S RHAPSODY

  • Luca Turilli – Lead Guitar
  • Alessandro Conti – Vocals
  • Alex Landenburg – Drums
  • Patrice Guers – Bass
  • Dominique Leurquin – Guitar
  • Mikko Härkin – Keyboards
  • Emilie Ragni – Vocals

Setlist:

  1. Nova Genesis (Ad Splendorem Angeli Triumphantis)
  2. Il Cigno Nero
  3. Rosenkreuz (The Rose And The Cross)
  4. Land Of Immortals (Rhapsody Cover)
  5. Unholy Warcry(Rhapsody Cover)
  6. Tormento E Passione
  7. Prometheus
  8. Demonheart

POWERWOLF

  • Attila Dorn – Vocals
  • Matthew Greywolf – Guitar
  • Charles Greywolf – Guitar
  • Falk Maria Schlegel – Keyboards
  • Roel van Helden – Drums

Setlist:

  1. intro: Lupus Daemonis
  2. Blessed & Possessed
  3. Coleus Sanctus
  4. Amen & Attack
  5. Sacred & Wild
  6. Army Of The Night
  7. Resurrection By Erection
  8. Armata Strigoi
  9. Let There Be Night
  10. Werewolves Of Armenia
  11. Kreuzfeur
  12. Sanctified With Dynamite
  13. We Drink Your Blood
  14. Lupus Dei

STRATOVARIUS

  • Matias Kupiainen – Guitars
  • Timo Kotipelto – Vocals
  • Lauri Porra – Bass
  • Rolf Pilve – Drums
  • Jens Johansson – Keyboards

Setlist:

  1. Speed Of Light
  2. Eagleheart
  3. Phoenix
  4. Sos
  5. My Eternal Dream
  6. Against The Wind
  7. Paradise
  8. Wiil The Sun Rise
  9. Shine In The Dark
  10. Black Diamond
  11. Forever
  12. Unbreakable
  13. Hunting High And Low

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