Si chiudeva ieri sera al Covo Club di Bologna il mini-tour italiano degli statunitensi Cloud Nothings e non c’era forse posto migliore per far sì che tutta la forza di questa straordinaria band si sprigionasse: il piccolo, ma pulsante cuore di Bologna, il Covo, luogo da cui sono passate band quali Franz Ferdinand, piuttosto che gli Shame, si è rivelato essere casa perfetta per Dylan Baldi e soci.

Il club di viale Zagabria si è andato via via riempiendo e, dopo l’ottima apertura dei romani Big Mountain County (da tenere d’occhio), era già stracolmo quando la band dell’Ohio è salita in scena.

Ed è stato subito il delirio: in un momento storico in cui le chitarre vengono sempre messe in secondo piano, a favore di synth ed elettronica in genere, i Cloud Nothings ci fanno riassaporare il gusto del suono e ci mostrano cosa voglia dire sudare, sopra (e sotto) il palco.

Da “Leave him now” a “The Echo of the World”, tratti dall’ottimo “Last Building Burning”, fino a “Now hear in” e “Stay useless” si crea un’empatia straordinaria tra il pubblico e la band, in un crescendo di suono, un vero e proprio muro di chitarre sapientemente miscelate con l’aiuto della batteria di Jayson Gerycz, una drum-machine umana pronta a pestare su qualsiasi cosa, accelerando e rallentando a piacimento.

In tutto questo clima ovviamente l’esaltazione sotto il palco è diventata via via più palpabile, tra pogo selvaggio e perfino stage diving e crowd surfing, in un’estasi collettiva che ha raggiunto il suo apice su “I’m not part of me”.

Dylan Baldi a guidare le danze sotto il suo cappellino da baseball e ad urlarci nelle orecchie tutta la sua frustrazione, ricevendola di rimando decuplicata dai cori del pubblico.

Chiunque abbia anche solo pensato per un secondo che sia finita l’epoca delle chitarre e dell’indie rock “fatto bene”, dopo aver visto un live dei Cloud Nothings non potrà che ricredersi.