Interviste

Le interviste di Concertionline ai protagonisti della musica: tutta la musica italiana e internazionale raccontata dalle parole degli artisti e delle band. Musica rock, pop, metal e non solo.

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Si intitolerà "Complimenti per la festa" e a dicembre partirà la campagna di crowdfunding per sostenere il progetto. Abbiamo intervistato il regista Sebastiano Luca Insinga, che sta seguendo la band cuneese durante il tour celebrativo di Catartica.

Nel 2014 sono 20 anni dall’uscita di “Catartica” e questo, ormai, tutti lo sanno, visto anche che proprio in questi giorni sta andando in scena uno splendido tour celebrativo in cui i Marlene Kuntz risuonano interamente quel disco. Pochi forse si ricordano però che sono anche 25 anni di carriera per i Marlene Kuntz, band nata nel 1989 dalle menti di Luca Bergia e Riccardo Tesio.

Per celebrare la ricorrenza a Sebastiano Luca Insinga, giovane regista siciliano, è venuto in mente di realizzare un documentario su di loro e su questo tour celebrativo, intitolato “Complimenti per la festa”.

Sebastiano Luca, con il prezioso aiuto di Simone Cargnoni (fotografo, già autore del booklet di “Nella tua luce”, penultimo album dei Marlene Kuntz), Elisa Piria (fonico), Luigi Pepe e Gianpaolo Smiraglia (produttori) ha così creato la casa di produzione Jump Cut (www.jumpcut.it), con cui si appresta a realizzare questo ambizioso progetto.

Ciao Luca, come è nata l’idea della casa di produzione Jump Cut e successivamente di “Complimenti per la festa”, il documentario sui Marlene Kuntz?

La Jump Cut è nata nella sua forma attuale, come società collettiva, ad agosto, in precedenza esisteva come società individuale, con cui lavoravamo sia io che Simone Cargnoni e aveva già co-prodotto un film, “Piccola Patria”, prodotto anche da Gianpaolo Smiraglia (oggi socio effettivo della Jump Cut), che era stato presentato a Venezia 2013 nella sezione “Orizzonti”.
“Complimenti per la festa” nasce dalla mia enorme stima verso i Marlene Kuntz; Simone Cargnoni lavora con loro già da tempo e io li ho conosciuti quando abbiamo realizzato il videoclip di “Solstizio” (primo singolo estratto da “Nella tua luce”, ndr): quest’anno sono sia i 20 anni di Catartica che i 25 anni di carriera per loro, così mi è venuta l’idea e, quando ho scoperto che preparavano un tour celebrativo del primo album con brani interamente anni ’90 (suonano anche i pezzi di “Pansonica”, ultimo album che recupera i demo di quegli anni, ndr) mi è sembrato perfetto documentare questi live. Siamo partiti con grande entusiasmo, senza aspettative, ma piano piano il progetto sta crescendo, così abbiamo pensato di avviare una campagna di crowdfunding per sostenere in parte le spese. Il crowdfunding prenderà il via a dicembre e durerà un mese.

Sei dunque favorevole a queste piattaforme di crowdfunding?

Assolutamente, è un modo per sostenere un progetto, finanziare direttamente gli artisti ed essere in qualche modo certi di poterlo avere una volta che sarà portato a compimento. Con il mercato cinematografico e musicale in crisi è una strada straordinaria. Nel nostro caso chi ci sosterrà potrà vedere il film in anteprima, gli arriverà a casa, il che è fantastico in un mercato come quello dei documentari che ha difficoltà di distribuzione.

Tornando a “Complimenti per la festa”, come sarà strutturato il documentario e come vi hanno aiutato i Marlene Kuntz stessi?

Abbiamo parlato con Riccardo Tesio e Luca Bergia (chitarrista e batterista dei Marlene Kuntz, ndr) e siamo venuti a conoscenza di un archivio, un vero e proprio tesoro di filmati inediti girati in buona parte dal fratello di Luca: era perfetto per il film, visto che si vuole raccontare non solo l’attualità ma anche il passato dei Marlene, come sono nati e la realtà di quegli anni.
Il film sarà articolato su tre linee narrative: il racconto della realtà di quegli anni, partendo dal contesto storico musicale italiano, attraverso materiale di archivio, interviste a chi gravitava intorno al mondo indie all’epoca e stralci dei mensili musicali di allora che parlavano dei Marlene.
A questo racconto più storico si intervallerà il racconto del tour attuale: i momenti di backstage, di soundcheck, gli spostamenti da un albergo all’altro, ma anche riflessioni dei Marlene su ciò che stanno vivendo, gli esiti del tour, l’affetto del pubblico, cosa significa suonare certi pezzi adesso rispetto a 20 anni fa.
Infine, ci sarà una terza linea narrativa: una riflessione che faremo a fine tour su quello che sono stati questi 20 anni di carriera per loro.

Pensi che questo tour sia un po’ la chiusura di un cerchio per i Marlene Kuntz e quindi il film arrivi a proposito per testimoniare tutto quanto?

Io ascolto i Marlene da quando sono giovane, ma li ho conosciuti con “Che Cosa Vedi?” ed ho poi riscoperto i dischi precedenti, quello che ho capito è che questo tour non ha niente di nostalgico, è semplicemente una festa, appunto, e loro sono consapevoli di avere ancora dentro quell’anima ma anche di essere diventati qualcos’altro; loro hanno sempre cercato di evolversi e fare sempre qualcosa di diverso per rispetto anche di chi li ascolta. Avrebbero potuto benissimo vivere di rendita facendo dischi sempre con le stesse sonorità, ma non lo hanno fatto, questo è un loro grande merito, anche se li ha portati ad essere molto criticati da un certo tipo di fan.

Riguardo al tour di “Catartica 994/014” c’è qualche aneddoto che è successo e ci puoi svelare?

Alcune cose simpatiche sono successe, per esempio a Firenze si è rotta la cassa della batteria, una cosa che lo stesso Cristiano Godano ha detto non essergli mai accaduta in 20 anni di carriera, a Brescia invece Luca ha rotto il pedale della batteria ed è stato cambiato a tempo di record, grazie alla fantastica crew dei Marlene. Stando vicino a loro ti rendi conto di quanto per loro sia importante prepararsi e dare al pubblico uno spettacolo autentico: per quanto la scaletta sia sempre la stessa ogni volta certi brani, come “Sonica” o “Nuotando nell’aria”, assumono delle sfumature differenti. Anche i soundcheck sono diversi, la tensione che c’è in alcuni posti non c’è in altri, ogni città è diversa.

Tu parlavi della fantastica crew dei Marlene, quella che davvero permette che i concerti siano realizzati, per cui ti chiedo, com’è vivere con loro praticamente ogni giorno?

Una cosa che contraddistingue i Marlene da qualsiasi gruppo è che loro sono veramente amici e stando con la crew si percepisce proprio un senso di “famiglia”; sono tutte persone alla mano ed eccezionali, che ci hanno da subito accolto nel gruppo anche se eravamo gli ultimi arrivati.

Ultima domanda, quali saranno i tempi e i modi di distribuzione di “Complimenti per la festa”?
L’idea è quella di distribuirlo in maniera privilegiata e limitata a chi parteciperà alla campagna di crowdfunding; loro vedranno per primi il film. Dopodichè cercheremo una distribuzione nei festival di documentari, il che speriamo ci apra i canali per una messa in onda televisiva su canali dedicati. Stiamo lavorando anche alla distribuzione cinematografica, insomma su tutti i fronti. La cosa certa è che chi parteciperà al crowdfunding vedrà il film per primo.

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La band romana prosegue con successo il tour di "Ancora Ridi" e pensa già al terzo disco.

La chiamano “la nuova scena romana” e loro, insieme a band come Ardecore o cantautori come Alessandro Mannarino, ne sono certamente alfieri valorosi: loro sono Il Muro del Canto e stanno portando in giro, ormai da qualche mese, il loro nuovo album “Ancora Ridi”, seguito del felicissimo esordio “L’Ammazzasette”.
Ho fatto due chiacchiere con il cantante e percussionista della band Alessandro Piervanti, in vista anche della prossima data di Firenze (Tender Club, 27 novembre, ingresso gratuito), la prima della tranche finale del tour.

“Ancora Ridi” è uscito a ottobre 2013, dunque ormai da un anno, puoi già tracciare un bilancio di come è stato accolto?

Il pubblico lo ha accolto molto bene, sono stupito di quanto in fretta abbiano imparato i pezzi e di come aspettino i concerti con ansia. Avevo un po’ timore che “Ancora Ridi” non venisse accolto bene come “L’Ammazzasette”, invece forse piace ancora di più, quindi a noi non rimane che goderci la cosa.

Rispetto a “L’Ammazzasette” questo secondo disco vira da una dimensione folk ad una più rock e anche dal vivo il live mi sembra più dinamico. Erano queste le sonorità che volevate approfondire?

“Ancora Ridi” è stato scritto durante il tour del primo disco, mentre eravamo in giro a suonare, questo ha fatto sì che le sonorità siano state grandemente influenzate dalla dimensione live, quindi ritmi più diretti, più veloci e meno cantautoriali, meno folk. Ora stiamo già scrivendo i brani per il terzo disco e siamo anche noi curiosi di capire cosa succederà.

I vostri testi raccontano storie di fame, di disperazione, riprendendo la tradizione delle storie popolari romane; è questo particolare momento storico che le rende così attuali?

Noi cerchiamo di scrivere storie fuori dal tempo, che potrebbero essere ambientate nel passato come nel presente; non mettiamo riferimenti temporali proprio perchè le nostre storie potrebbero raccontare sia l’Italia di una volta che quella di oggi. Nei nostri pezzi cerchiamo di dare risalto a quello spirito popolare, quell’unione che sta alla base della risoluzione di ogni problema sociale.

A proposito della scena romana, non è un po’ riduttivo dovervi identificare con questa definizione? Non avete paura di rimanerci incastrati?

Questo è più un problema che si pongono gli addetti ai lavori, chi analizza le cose in modo asettico; le persone che ci vengono a vedere dal vivo restano coinvolte, si emozionano per le nostre storie e l’unica differenza che conta alla fine, è sempre quella tra musica bella e musica brutta, tutte le altre definizioni non sono importanti.

Girando in tour che tipo di Italia avete potuto vedere? Vale ancora la pena fare il musicista o la situazione è tragica come la dipingono gli addetti ai lavori?

Vale sempre la pena, anche se è ovvio che chi faceva musica negli anni ’90 o nei primi 2000 ha visto un cambiamento forte nella situazione dei live, ma in ogni caso ogni epoca ha qualcosa da dare, ogni concerto ha qualcosa da dare, è una piccola esperienza, c’è uno scambio di emozioni e storie con le persone che vale sempre la pena. Il lato economico non deve essere centrale in questo lavoro.

Cosa deve aspettarsi chi verrà a vedervi a Firenze e nei prossimi live e magari non vi conosce?

Noi porteremo il nostro mondo, la nostra storia lunga due dischi, speriamo che chi non ci conosce abbia la curiosità e la voglia di volerci scoprire.

Ultima domanda, sai già in che direzione musicale andrà il vostro terzo disco?

Guarda questi primi due dischi ci hanno permesso di definire la nostra identità, col terzo disco puntiamo a consolidarla: sonorità western, rock decadente, le sonorità sporche di Tom Waits. Un rock ombroso che sfocia in grandi cavalcate energetiche.

Hai un aneddoto che ricordi in modo particolare di questo tour?

Sì, in un paesino pugliese in estate dovevamo suonare in piazza, la prima tappa estiva del tour in una piazza, invece pioveva, così ci hanno portato in una masseria rustica dove ospitano i turisti e il concerto è diventato un acustico per tante persone che parlavano lingue diverse, un’esperienza magnifica che si vede in un documentario sul tour, “Ancora Ridi Tour”, che è disponibile su youtube.
Queste le prossime date dell’ “Ancora Ridi Tour”:
27/11 FIRENZE – tender:club
29/11 ROMA – ore 16 Piazza dei Gerani con ASSALTI FRONTALI
12/12 GENOVA – Lsoa Buridda
13/12 TORINO – Csoa Gabrio
14/12 CASTEL MADAMA(RM) – Oliolive

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Dear Jack: alzi la mano chi aveva sentito questo nome un anno fa. La band era sul mercato dal 2012, ma per i ragazzi di Tarquinia la vita era quella di un gruppo di provincia, sempre alla ricerca di un ingaggio, di un’opportunità per farsi conoscere. Un bel giorno arriva la proposta a cui non rinunciare. Maria De Filippi cerca un gruppo per il suo talent Amici. Da quella trasmissione sono usciti tanti affermati cantanti e allora perché non provare? La strada è lunga, irta di problemi, compresa la necessità di rivedere la formazione originale. I fondatori Alessio Bernabei e Francesco Pierozzi, cercano nuovi musicisti e in qualche modo rinnegano il loro passato rock: il mercato cerca un gruppo pop. Arrivano Lorenzo Cantarini, Alessandro Presti e Riccardo Ruiu e la formazione è completa. L’avventura ad Amici si chiude con un secondo posto, ma anche il premio della critica che frutta 50 mila euro. Da quel momento inizia un qualcosa di inaspettato. I Dear Jack diventano un fenomeno dell’estate. Il loro album Domani è un altro film va a ruba, i Modà li invitano ad aprire il loro tour negli stadi. Con l’autunno arriva addirittura una lunghissima serie di date nei palazzetti, che raccoglie tanti sold out. Un sogno incredibile che proseguirà ancora. Ma cosa si nasconde dietro gli occhi scanzonati di questi cinque ragazzi? Abbiamo cercato di scoprirlo con questa intervista realizzata con il batterista Riccardo Ruiu.

Miracolo, investimento, fortuna, bravura: quale di questi sostantivi si addice di più ai Dear Jack?

Ne scelgo due: bravura e fortuna. Nel primo caso credo possiamo essere considerati dei buoni musicisti. Fortuna perché si sono concretizzate delle circostanze, in successione che si hanno portato al successo. Proprio recentemente, parlando tra di noi, abbiamo ripercorso il nostro periodo di Amici e ci siamo chiesti: ma vi immaginate se non avessimo fatto quell’esame o non fossimo arrivati in finale? C’è stata una fortunata concatenazione di avvenimenti che ci ha permesso di arrivare fino a qui. Ma la fortuna è stata anche quella di trovare persone decise ad investire nella musica. Posso garantire che di questi tempi non è per niente facile.

Chi erano i Dear Jack prima dello scorso novembre e quando è arrivata la decisione di entrare nella band, visto che tu sei entrato da poco tempo?

Sono entrato poco prima del programma e sono stato chiamato perché Alessio aveva bisogno di nuovi musicisti, per poter sostituire alcuni membri che avevano problemi tecnici e caratteriali. Mio padre mi ha quasi obbligato ad accettare la proposta, perché non ne volevo sapere. Non sapevo nulla di Maria De Filippi e nemmeno dei talent show e alle prime due telefonate mi sono rifiutato, poi mio padre mi ha fatto capire che sarebbe stato un delitto rinunciare all’occasione della vita e quindi ho accettato.

La “fabbrica di cantanti” di Maria è stata l’unica strada intrapresa verso il successo?

In realtà è successo tutto per caso. Alessio non aveva mai pensato ad un talent. Poi è arrivato un musicista di Tarquinia, che fa di cognome Capitani, che ha paventato la possibilità di inserire per la prima volta una band ad Amici. La band fino a quel momento si esibiva in piccoli locali, partecipava a contest, senza riuscire a decollare, così ha raccolto la sfida. L’idea era quella di portare la musica dei Dear Jack prima maniera. Poi gli eventi hanno fatto in modo che si passasse al pop. Io avevo visto molti vecchi video e il pensiero di suonare quel tipo di repertorio non mi dispiaceva. Quando è arrivato il cambiamento, mi sono sentito spiazzato, ma alla fine mi sono adeguato.

Che tipo di musica suonavi?

Fino allo scorso anno suonavo metal, ma oggi posso dire che l’esperienza è interessante. Rispetto a qualche mese fa ho la mente molto più aperta. Ascolto la radio in macchina e apprezzo artisti che mai avrei ascoltato prima, tipo Francesco Renga o Alessandra Amoroso.

L’avventura in televisione si chiude con un secondo posto, il premio della critica e 50 mila euro di premio. Di qui inizia un’estate folle: Olimpico, San Siro, palchi prestigiosi, 100 mila dischi venduti. E’ davvero il frutto del caso o era già in piedi un progetto?

Non c’era alcun progetto di partenza. Anzi, ogni settimana ci imponevamo un momento di confronto per fare il punto della situazione. Quando è uscito l’album e il primo singolo ci siamo trovati all’interno di un’esplosione mediatica pazzesca e avevamo grande difficoltà a mantenere una linea ottimale, sia nei confronti dei fan, che del web. Per tutta l’estate abbiamo girato, abbiamo partecipato a festival, a presentazioni e davvero non ci siamo mai resi conto di cosa ci stesse succedendo. Ci siamo trovati al punto di avere difficoltà anche solo per una chiacchierata tra amici.

Non vi manca un po’ il contatto con il pubblico (e magari non vi opprime il cordone dei bodygard che probabilmente vi separa dai fan, quello che per intenderci hanno i cantanti che arrivano all’apice per gradi, crescendo con i propri beniamini?

Io sono il più anziano e da quando suono posso dire di aver fatto gavetta e di aver avuto sempre un contatto ravvicinato con il pubblico. Poi tutto è sparito. Tanto per fare un esempio, la scorsa settimana ho fatto una master class di batteria, e la vicinanza con la gente mi ha davvero commosso ed emozionato. Ci manca la possibilità di guardare la gente negli occhi. Nei palazzetti è tutto complicato a causa delle luci e della distanza.

Tra i vostri pigmalioni c’è Kekko Silvestre. Vi ha dato qualche consiglio prima di salire sul palco dell’Olimpico?

Il giorno antecedente il concerto ha voluto ascoltare tutte le nostre prove, ci ha dato una mano con i suoni. Un paio d’ore prima dello show ci ha dato consigli, su come comportarsi e come affrontare psicologicamente il palco. Per noi l’attesa nel backstage è stata devastante, perché avevamo una tensione pazzesca. Se poi aggiungiamo che il nostro intro era un cont down, lascio immaginare cosa frullasse nei nostri cervelli. Kekko ci ha aiutato a gestire la cosa e ci è riuscito alla grande. Così come ci ha aiutato la grande scuola di Amici, che ci ha regalato molta sicurezza: una cosa di certo non scontata per ragazzi che hanno dai 22 ai 26 anni.

Completate le date del tour inizierà la vostra carriera di musicisti affermati: qual è la vostra preoccupazione più grande?

Ci abbiamo pensato molto. La preoccupazione è quella che tutto possa finire. In queste ultime due settimane abbiamo registrato il nuovo disco e posso dire che c’è una maggiore consapevolezza, una crescita ed una maturazione notevole, che ci rende ottimisti. Speriamo che questo lavoro sia accolto bene dal nostro pubblico. La gente è volubile e quindi è tutto da vedere. Dal nostro punto di vista crediamo sia un prodotto forte.

Vedremo i Dear Jack più rock e meno pop?

Diciamo che ci saranno delle novità, questo è sicuro. Anche i testi saranno diversi. Il disco sarà arrangiato in modo più professionale e più maturo, senza perdere di vista la spensieratezza.

I brani saranno vostri o avrete qualche aiuto esterno?

La maggior parte del pezzi è nostra, anche se avremo aiuti esterni. Le collaborazioni sono state indispensabili per completare un lavoro così complesso, anche alla luce del poco tempo che avevamo a disposizione. Uno dei brani è scritto proprio da Kekko e di questo lo ringraziamo

Rumors vi indicano tra i partecipanti a Sanremo 2015: cosa ci dite in proposito?

Sanremo è nei nostri sogni e nei nostri progetti. Se la commissione apprezzerà il nostro pezzo, ci andremo ben volentieri.

 

Intervista a cura di Vincenzo Nicolello

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I Santa Margaret nascono a Milano dall’incontro della cantautrice Angelica Schiatti
(classe 1989), con il chitarrista delle Vibrazioni, Stefano Verderi. Negli ultimi due anni si sono
dedicati alla composizione di brani originali, chiamando a se amici e musicisti di lunga
esperienza nella scena milanese, per dare vita ad un sound che affonda le sue radici nel
blues e nel rock, per poi perdersi in sonorità più psichedeliche, e ritrovare infine la strada di
casa con melodie tipiche della canzone d’autore italiana degli anni ’60. In occasione dell’uscita del loro primo Ep, “Il suono analogico cova la sua vendetta” (Vol.1), abbiamo intervistato la frontman e voce Angelica, che partendo dalle origini, ci ha svelato i sogni futuri.

Angelica, come sono nati i Santa Margaret e quali sono le influenze musicali?
«Il progetto Santa Margaret nasce effettivamente da poco tempo, ma noi veniamo tutti da esperienze musicali di vecchia data. Abbiamo iniziato io e Stefano (Verderi ndr) che è il produttore del disco e il chitarrista a scrivere dei pezzi. Entrambi avvertivamo la necessità di un sound un po’ più costruito rispetto a quello cantautorale. Dato che tutti e due abbiamo le stesse influenze musicali e ci rifacciamo al rock degli anni ’70 e al cantautorato italiano, abbiamo formato questa band, completandola con Marco Cucuzzella (batteria ndr), Leonardo Angelicchio (tastiere ndr) e Ivo Barbieri (basso ndr), con cui suonavamo da parecchi anni. Il fatto di ritrovarsi insieme a suonare è stato un gesto abbastanza naturale e di qui sono nati i Santa Margaret».

Un nome che incuriosisce e rievoca il centro e sud America: come è stato scelto?
«Noi volevamo rifarci all’italianità nel mondo. Evocando tutto ciò che è mediterraneo e che si riferisce al Sud. Per cui abbiamo scelto Santa, che è un nome sicuramente nostrano e Margaret, che invece è internazionale. In più Margaret è donna e questo richiama il fatto che sono una donna e quota rosa in una band al maschile. In definitiva Santa Margaret è un luogo di ispirazione, ma anche un’isola che non c’è».

Il vostro sound è un vero mix di rock e sonorità a tratti antiche, un’operazione nostalgica amplificata anche dalla scelta di registrare in analogico e vendere la vostra musica su vinile. Non è una cosa un po’ anacronistica?
«Non siamo nostalgici, anche se ci piace la musica del passato. In realtà la registrazione in analogico non è affatto una scelta antica. Ad oggi si può scegliere tra la tecnologia digitale e quella analogica, anche sulla base di cosa suona. Noi utilizziamo strumenti vintage e per questo siamo giunti alla conclusione che l’analogico sarebbe stata la strada più ovvia, conseguente e naturale. Quanto al vinile, vorrei ricordare di come sia l’unico supporto, ad oggi, dove la musica si sente veramente bene. E’ il formato migliore per trasmettere l’onda sonora e il tocco. Detto questo posso dire che il Cd lo faremo. Del disco abbiamo lo streaming e il download gratuito e quindi è già presente una versione digitale».

La scelta di spezzare il lavoro in due Ep, uno appena uscito e l’altro che invece sarà pubblicato nel 2015 è stata dettata dalla necessità di rifinire i brani del secondo disco?
«In realtà è un unico volume, infatti anche il secondo Ep è già pronto. L’abbiamo diviso in due, per una questione di promozione. Poiché siamo emergenti e siamo sbucati come un funghetto nel bosco era più conveniente spezzarlo. L’unico dubbio è capire se il secondo sarà in effetti un Ep oppure un Cd che conterrà anche la prima parte. Ma la decisione arriverà alla fine di questo tour promozionale».

Il vostro debutto dal vivo è arrivato sul palco di una band rock storica, quali sono i Deep Purple. La vostra vera essenza è la musica dal vivo?
«Assolutamente. Ma credo che tutte le band ambiscano esibirsi su un palco. La differenza tra una band ed un interprete sta proprio nel fatto che noi lavoriamo sempre insieme al nostro produttore e quindi il concerto è lo sbocco naturale del nostro prodotto. Un interprete magari ha una produzione e degli strumentisti che possono differire tra studio e palco. Parte del nostro disco è in realtà una live session e questa è sicuramente la dimensione che noi preferiamo. Purtroppo il vero problema è la mancanza di spazi dove potersi esibire dal vivo. Magari si trovano locali dove suonare unplugged, ma sono situazioni ristrette. A noi piacerebbe allargare un po’ i nostri orizzonti».

Come siete stati accolti dal pubblico rock genuino dei Deep Purple?
«Il pubblico era molto eterogeneo: dall’adolescente al cinquantenne. Ad oggi possiamo dire che sia stata la platea più figa che noi abbiamo mai avuto. Gli spettatori erano molto attenti ed io ero preparata al peggio, visto che mai ero salita su un palco così prestigioso. Invece ci hanno accolto benissimo. E’ stato eccezionale».

Tra qualche giorno uscirà il film di Aldo Giovanni e Giacomo, “Il ricco, il povero e il maggiordomo”, con due vostri brani nella colonna sonora: come è nato questo progetto di collaborazione?
«La cosa è nata in modo casuale. Cercavano pezzi rock per il trailer e per alcune scene e tra i vari ascolti che hanno fatto hanno scelto i nostri pezzi. Siamo sorpresi ed onorati, perché amiamo moltissimo Aldo, Giovanni e Giacomo. La loro è una comicità di serie A, senza dimenticare che sono nostri concittadini. Non li abbiamo ancora conosciuti, ma speriamo di farlo nelle prossime settimane. Sarebbe bello nascesse in futuro qualche altra collaborazione, perché crediamo nelle sinergie delle varie forme d’arte. Basti ricordare la copertina del nostro disco che è stata realizzata da Shout, un illustratore forse sconosciuto in Italia ma bravissimo, che siamo contenti di promuovere».

Il film potrebbe regalare la consacrazione, ma cosa vedono i Santa Margaret nella sfera di cristallo per il loro futuro? Magari Sanremo?
«Sanremo sarebbe la cosa più bella e importante. Purtroppo il Festival è una delle ultime manifestazioni con una simile visibilità, dove è possibile suonare i propri pezzi e farsi conoscere. La partecipazione non dipende da noi. Ci speriamo, anche se non sarà facile».

Intervista a cura di Vincenzo Nicolello

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La band di Alessandro "Asso" Stefana è in tour con il suo nuovo disco, ispirato ad un'antologia curata da Vittorini.

I Guano Padano sono una delle esperienze più trascendentali che ha regalato la musica italiana degli ultimi anni: riescono a creare interi universi musicali senza l’uso delle parole e la loro fama è tale che Mike Patton si è accorto di loro e, dopo aver partecipato a “2”, il disco che precedeva “Americana”, adesso li ha prodotti e lanciati in tutto il mondo con la sua Ipecac Records.

L’ultima fatica della band si chiama “Americana” ed è ispirata ad un’antologia di autori americani (da Steinbeck a Hemingway, fino ad Edgar Allan Poe) curata da Elio Vittorini che, quando fu ideata negli anni ’30, fu censurata dal regime fascista, poco propenso a lasciar pubblicare autori stranieri non germanici.

Ne abbiamo parlato con Alessandro “Asso” Stefana, chitarrista dei Guano Padano, che ci ha raccontato come è nato il nuovo disco.

Con “Americana” i Guano Padano riescono a trasporre la letteratura in musica, senza però usare le parole. Quanto lavoro ha richiesto una simile impresa?

E’ stato un lavoro abbastanza breve rispetto ai nostri standard.
Solitamente impieghiamo un paio d’anni prima di pubblicare un disco, mentre questa volta abbiamo lavorato  (solo) alcuni mesi. E’ stato un processo di realizzazione molto naturale.

Come è nata l’idea di partire dall’antologia di Vittorini e sviluppare un intero disco?

L’idea del concept è nata da Nicoletta Montella (filologa e moglie di Zeno De Rossi, batterista della band ndr).
Ed essendo noi stessi appassionati a questo tipo di letture abbiamo sposato appieno l’idea ed insieme abbiamo creato l’ossatura del disco, sulla quale poi abbiamo creato le canzoni.

Quell’antologia negli anni ’30 voleva portare in Italia qualcosa di nuovo, qualcosa che desse orizzonti nuovi. Trovate che il contesto italiano attuale, musicale ma non solo, fatte le dovute proporzioni ovviamente, abbia ancora necessità di “allargare gli orizzonti”?

C’è sempre bisogno di allargare gli orizzonti e di guardare oltre, anche se oggi in realtà possiamo avere veramente tutto a portata di mano e in un attimo. Forse quello che ci manca è il vivere intensamente le cose, viverle a fondo per farle diventare parte di noi. Il rischio di oggi, almeno in musica, è quello di non fare lezione delle cose che ascoltiamo.

Se dovessi scegliere solo uno scrittore, tra quelli contenuti in “Americana”, che ti ha maggiormente influenzato nella vita, chi sarebbe e perchè?

Sicuramente l’autore dell’Antologia cui sono più legato è Steinbeck.
Lo Steinbeck giocoso e bontempone di “Pian della Tortilla”, e allo stesso tempo quello capace di farti piangere in “Uomini e topi”.

Il disco vede la partecipazione di Joey Burns dei Calexico e di Mark Orton, come sono nate queste collaborazioni?

Joey Burns (Calexico) è un nostro amico di lunga data.
E’ stata una delle prime persone a credere nei Guano Padano, tanto che nel primo disco scrisse delle entusiasmanti note di copertina. Ci sembrava bello, dopo tanti anni di amicizia, coinvolgerlo nel progetto.
Ne abbiamo parlato insieme quest’estate in occasione dei concerti che abbiamo aperto per i Calexico e tutto è andato nel migliore dei modi, Mark Orton è un caro amico di Zeno, incredibile polistrumentista che ha impreziosito il disco con interventi di dobro, banjo ed altre sonorità.

Che tipo di show deve aspettarsi chi verrà a vedervi live? Il vostro è un suono molto cinematografico, avete pensato eventualmente anche a uno spettacolo con una parte visual?

Per il momento non ci sarà visual nei concerti ma ci stiamo lavorando.
Il concerto sarà fondamentalmente diviso in due parti: la prima, dedicata interamente al nuovo disco, mentre nella seconda suoneremo i nostri cavalli di battaglia.

Ti lancio un’idea, non so se è fattibile o ci stavate già pensando: perchè non realizzare una parte di tour in cui la lettura di alcuni racconti di “Americana” accompagni la vostra musica a mò di reading?

Ci abbiamo pensato, è una strada percorribile…

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Momento impegnativo per Immanuel Casto e Romina Falconi alle prese con il tour Sognando Cracovia e con la promozione a Lucca del gioco di carte Squillo e del primo numero del fumetto Squillo The Comics. Li abbiamo intervistati in una chiacchierata a sei mani ed ecco cosa ci hanno raccontato.

Partiamo dal live. Immanuel all’Alcatraz di Milano è arrivato un “tutto esaurito” ti aspettavi un successo del genere?
IC «E’ stato stupendo. Debbo dire che non mi sarei mai aspettato un pubblico così numeroso. Temevamo questa sfida e invece c’è stata una risposta pazzesca e ne siamo entusiasti».

Dopo Milano è arrivato lo spettacolo al Teatro del Giglio di Lucca, dove invece c’è stata qualche polemica, con tanto di minaccia di interrompere lo spettacolo a causa del linguaggio poco consono al posto…
IC: «E’ stata una data difficile, ma comunque riuscita. Il pubblico c’era ed era caldo. Anche la cornice era meravigliosa. Tra gli organizzatori c’era molta paura, al punto che nel cartellone del festival non appariva il nostro nome, ma solo il titolo del tour ‘Sognando Cracovia’, a fianco di Fiorella Mannoia e Marianne Faithfull. C’era una sorta di ritrosia, che poi è rientrata al termine del concerto. Lo stesso direttore ci ha fatto i complimenti, dicendo che pur trovando il linguaggio un po’ eccessivo per i suoi crismi, chiaramente conservatori, ha apprezzato moltissimo l’esecuzione, lo stile e l’ironia, auspicando future collaborazioni. Quindi nel complesso è stata un’esperienza positiva».
Romina: «Abbiamo deflorato quello che è l’unico e importante teatro di Lucca. Qui di solito ci sono Puccini e i grandi classici, mentre noi cantavamo ‘che bella è la cappella’. Il terrore del direttore era evidente, ma poi si è tranquillizzato, vedendo quanta gente c’era. E’ stato incredibile».

Sei sul palco con Romina Falconi. Come è nata questa coppia?
IC «Era un progetto che accarezzavo da tempo, fin dal 2011 quando abbiamo avuto le prime collaborazioni in ‘Trash’. Romina è stata ospitata alcune volte nei miei live e il pubblico era entusiasta della sua presenza. Così abbiamo progettato questo tour congiunto ed il risultato è ottimo. Il fautore è stato il nostro manager in comune, Jacopo Levantaci. E’ uno spettacolo a due, in cui ognuno propone il rispettivo repertorio alternato a duetti. Tutto è molto fluido e ricco».

Romina dopo XFactor ed Eros Rammazzoti sei al fianco di Immanuel. Dove ti senti più a tuo agio?
R «Tra Immanuel e Eros, mi trovo molto meglio con il primo. Pur avendo un background molto diverso dal mio ha una voglia di sperimentare e di osare, un po’ come avveniva negli anni ’80. C’è voglia di teatralità e di rischiare. Stiamo cercando di abbattere un muro, senza sapere quello che si nasconde dietro. Mi piacevano le sue ali e sono contenta di volare con lui. Non c’è differenza tra il Casto nella vita e quello sul palco. Abbiamo testi molto diversi, ma questo fatto mi spinge ad abbandonare quell’immagine di cantante un po’ impomatata. Mi piace far vedere la parte marcia e isterica di noi donne. Non mi vergogno di mostrare i pensieri cattivi. A Immanuel sono molto grata, perché grazie a lui ho deciso di autoprodurmi. Ora non mi sembra vero di essere su un palco, come quello dell’Alcatraz, davanti a mille persone scatenate».

Chi ha dovuto concedere di più all’alto, vista la grande diversità?
R «Nessuno dei due. Sembriamo due mondi avulsi, ma nella realtà ci piace integrarci, diventando unici nel nostro genere. Cerchiamo di non seguire le regole per raggiungere quella teatralità che ha fatto grandi il primo Renato Zero o Donatella Rettore. Abbiamo una bella faccia tosta e questo in fondo è il collante che ci accomuna. Basti pensare che sono arrivata a trasformarmi in trans e anche in prostituta. E’ un bel cammino e non ci importa di quello che ci riserverà il futuro».

Come ti ha accolto il pubblico di Immanuel?
R «Benissimo. Anche se mi esibisco in un contesto differente dal mio. Vedo che la gente sa a memoria anche i miei brani e di questo non me ne capacito. E’ la prima volta che mi succede una cosa del genere».

Immanuel parlaci dello spettacolo. Cosa si devono aspettare i fan?
IC «E’ uno spettacolo ricco di coreografie, di visual graphics. A livello musicale l’elettronica è l’elemento principale, con due musicisti che suonano un sacco di strumenti dal vivo. Però ci sono incursioni pop, dance, dubstep, rock, acustiche. Un’ora e 45 di spettacolo che volano in un attimo. Io stesso sul palco non mi rendo conto di quanto finisca in fretta».

Sognando Cracovia, il brano che dà il titolo al tour, ha un testo che devia un po’ da quello che è il tuo ‘porno groove’, perché parla di badanti…
IC «In realtà le badanti sono raccontate in chiave sexy, visto che ‘la speranza che si infila
tra le cosce di Ludmilla’. C’è l’erotismo affrontato con estrema ironia e quindi anche questo pezzo rientra perfettamente nel mio genere. L’abbiamo scelto come titolo del tour, perché l’abbiamo fatto insieme io e Romina e quindi rappresenta l’unione. Poi è estremamente autoironico e nato con l’obiettivo di far divertire».

A fianco della musica è nata questa nuova iniziativa editoriale denominata ‘Squillo’, un gioco di carte dedicato allo sfruttamento della prostituzione, recentemente aggiornato con l’uscita di ‘Marchettari sprovveduti’. Come spieghi questo successo?
IC «Tutto è nato per divertimento. Così come tutte le cose che faccio. Io volevo giocare con i miei amici, poi il mio manager ha sentenziato che sarebbe potuto diventare un prodotto di culto da mettere in commercio. Sono partito con un’autoproduzione indipendente, per la quale ero io stesso a preparare i mazzi di carte. Poi è arrivata la produzione seria, che è sfociata nell’apertura di una società che si occupa proprio dei giochi. Il successo è enorme tra i fan, ma anche tra gli amanti del genere».
Nelle carte sono ritratti personaggi famosi, qualcuno si è arrabbiato?
IC «Assolutamente no. Gli unici che hanno protestato sono stati gli esclusi, ma forse perché avrebbero voluto essere coinvolte».

Un’altra iniziativa riguarda il primo numero di un fumetto dedicato alla vera storia della prostituta Debora…
IC «E’ una storia comica, con risvolti noir. Si tratta di un revival di quei fumetti porno degli anni ’70, riproposto in chiave moderna. Parla di questa Debora, che stufa di lavorare in un call center si trasforma in Analia, una escort dalle sorprendenti capacità. Viene introdotta in un ordine occulto di prostitute, il Penny Club e da lì partono le porno avventure, rigorosamente vietate ai minori».

Questa grande creatività arriva dopo un esilio dorato in Australia. Come mai questa fuga dall’Italia?
IC «Dopo anni dedicati anima e corpo ai miei progetti, avevo bisogno di cambiare un po’. Così finito il vecchio tour sono scappato per sei mesi e la cosa mi ha fatto benissimo. E’ una terra splendida dove vivrei se non avessi i miei progetti qui. Il richiamo per l’Italia è arrivato forte. Sono tornato volentieri e debbo dire che ho vissuto il rientro in modo positivo, nonostante per il nostro Paese sia un momento difficile. Io sono felice anche qui».

Che cosa bolle nella pentola di Immanuel Casto?
IC «Stiamo pensando a nuovi prodotti ludici, stanno scrivendo un libro su di me, anche se penso che sia un po’ presto per una biografia artistica. E’ possibile che venga accompagnato da una raccolta di video e brani. In più stiamo pensando a Sanremo. Abbiamo proposto una canzone alla commissione artistica e vedremo se sarà accettata. Si tratta di una vera sfida, perché il brano è molto diverso da quelli nel mio repertorio».
Conclusa questa parentesi live, cosa farà Romina Falconi?
R «Sto preparando il terzo Ep, mentre nel 2015 spero di fonderli in un unico Cd. Poi c’è questa pazzia di Sanremo, ma come si dice: we have a dream. Non abbiamo rinnegato noi stessi per amore dell’Ariston. Semplicemente affronteremo un argomento un po’ più serio: la violenza. Un testo teatrale, sulla scia di Signor Tenente di Giorgio Faletti. Niente pop, dunque, ma recitazione; e su questo fronte abbiamo le nostre carte da giocare».

Intervista a cura di Vincenzo Nicolello

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Sentimento, valori e amore da raccontare con le mie canzoni

A 35 anni dal suo esordio folgorante, Alberto Fortis continua a macinare chilometri di musica e torna a sorprendere. Do l’anima, il nuovo cd che racchiude quattro anni di lavoro, è stato realizzato in modo atipico e suggestivo: l’Artista insieme al co-Produttore (Lucio Fabbri) chiusi due mesi in studio a suonare di tutto, senza aiuti esterni a scremare tra le 40 canzoni scritte negli ultimi quattro anni, a scegliere la via insomma; gli altri musicisti arriveranno solo in seguito. Il debutto discografico è nel ’79 con l’album “Alberto Fortis” dove viene accompagnato dalla Premiata Forneria Marconi e con il quale ottiene subito un grande successo.
Alberto conquista rapidamente l’affetto del pubblico con canzoni come “La sedia di lillà”, “Il Duomo di notte”, “Milano e Vincenzo”, “Settembre” e “La neña del Salvador” che lo consacrano tra i grandi protagonisti della musica italiana.
Sedici album realizzati tra Italia, Stati Uniti e Inghilterra, un disco di platino, due d’oro e oltre un milione e mezzo di dischi venduti.
In occasione dell’uscita dell’album Do l’Anima, gli abbiamo rivolto qualche domanda. Ecco cosa ci ha risposto.

Alberto Fortis ritorna a far parlare di sé con un nuovo disco. Ci racconti la filosofia musicale e testuale su cui si basa questo lavoro?
«La filosofia musicale parte da un autentico desiderio di comunicare con il linguaggio melodico della scrittura. In una rosa di 40 canzoni, ho scelto, insieme al maestro Lucio violino Fabbri, coproduttore insieme a me dell’album, le composizioni che parlano,a nostro avviso, il codice più intenso, emotivo e fluido. Scelta che confluisce nella filosofia testuale che vorrei così riassumere: parlare con forza e sincerità dei più importanti valori sentimentali, emotivi e sociali, partendo dal proprio amore per confrontarlo e metterlo al servizio di quanto compone il quadro della vita che ci avvolge. Specialmente pensando alla notte sociale che stiamo attraversando e al desiderio premente di ognuno di noi di un più veritiero e decente senso quotidiano, libero e immune dalle obsolete e ingannevoli trappole,ancora erroneamente e stupidamente credute efficaci».

Do l’Anima vede la presenza di nomi illustri della musica italiana da Antonacci a Vecchioni, senza dimenticare quel genio musicale di Lucio Fabbri. Come è nata l’idea delle collaborazioni?
«Le collaborazioni eccellenti di Do l’Anima nascono con lo stessa identica natura dell’album : in primis il mio grazie e la mia riconoscenza al maestro Lucio Violino Fabbri, per l’avvincente e sorprendente lavoro che ci ha visto costruire a quattro mani le fondamenta del progetto. Conoscenza e stima personalità e professionalità dagli inizi delle nostre carriere sono alla base di altre partecipazioni. Dagli albori della carriera di Biagio, ai miei, quando batterista della band I Raccomandati, suonavo e cantavo canzoni scritte da un giovane e stimatissimo autore :Roberto Vecchioni. Non vorrei dimenticare, inoltre, la presenza di Carlos Alomar, un chitarrista di fama internazionale che suona nel brano Principe».

Da qualche giorno è iniziata la promozione dell’album: quanto è diventato difficile parlare del proprio lavoro, specie se è musicale?
«Tempi e modalità sono profondamente cambiati, ma per questo la scommessa di comunicare con coraggio valori etici,artistici e più semplicemente quotidiani, diventa ,sì, impegnativa, ma affascinante e guerriera. Do l’Anima mi sta regalando grandi gioie a questo proposito, perché mi sta riportando indietro nel tempo, quando era forte il legame con il pubblico. Avverto la vigilia di un combattuto risveglio, contro le logiche moderne della discografia».

Nella tua carriera hai venduto oltre un milione e mezzo di dischi: secondo te ci sarà ancora la possibilità di vendere musica e fare numeri importanti, o internet ormai ha cancellato ogni speranza?
«Numeri grandi si possono concepire per un successo internazionale. Per il nostro Paese è ragionevole parlare, nei casi migliori, di buoni numeri con un indotto importante sull’attività dal vivo. Sono proprio i live il mezzo importante e fondamentale per ben far comprendere la sostanza dell’artista. Il web è un presente/futuro ineluttabile: una sorta di libero arbitrio che discriminerà sempre di più l’umanità dignitosa e intelligente da quella volgare e di basso intendimento,tanto nel ricevere quanto nel dare».

Sono passati 35 anni da quando hai debuttato sulla scena. Quali sono i punti di contatto con quel passato artistico e quali invece le soluzioni di continuità tra i due Alberto Fortis?
«Sono sostanzialmente la stessa persona, nelle sue passioni, lotte e desideri. Aggiungerei fortunatamente. C’è molto cammino in più, certo,a fronte di 16 album realizzati tra Italia, Usa, Regno Unito. Ci sono anche tanti percorsi di ricerca che mi hanno portato a scrivere 3 libri di poesie e una bografia per condividere momenti fondamentali della mia vita: territori, incontri, concerti e sorprese del destino».

Nella tua biografia si legge che Paul McCartney, Yoko Ono e Wim Wenders ti hanno aiutato a “sfondare” oltre oceano. Come li hai conosciuti?
«Sono persone sorprendentemente umane,semplici e profonde. Ho conosciuto Paul durante la registrazioni del mio album Fragole Infinite agli Abbey Road Studios di Londra, che sono la casa musicale di The Beatles.Il tramite è stato George Martin,storico produttore dei Fab Four, ma anche supervisor e convocatore dei maestri della London Philarmonic Orchestra che hanno suonato nel mio album. Yoko Ono, invece, l’ho conosciuta alla sua mostra fotografica a Manhattan,quando stavo registrando l’album Assolutamente tuo, prodotto da Carlos Alomar, sopra citato chitarrista, storico collaboratore di David Bowie,che con Lennon&Bowie ha scritto Fame. Il maestro Wim Wenders, infine, l’ ho conosciuto a Milano alla prima del suo film Don’t Come Knocking».

Completato il lancio del disco hai intenzione di partire con un Tour? Nel caso ci fai qualche anticipazione?
«L’attività live è uno dei momenti fondamentali nella comunicazione dell’arte di un musicista. Il battesimo dal vivo di Do l’Anima è avvenuto lo scorso 6 ottobre al Teatro Studio Melato Piccolo Strehler. Quel concerto ha rappresentato una delle gioie più profonde della mia carriera. Ricevere durante e dopo lo spettacolo una vera compartecipazione sentimentale e ideologica, mi ha dimostrato che il pubblico ha recepito il messaggio del mio album. In fondo è questa la più forte soddisfazione per un artista come me, che ha sempre vissuto i concerti come la testimonianza più naturale e immediata del suo credo artistico, da condividere con il pubblico. Ora stiamo lavorando per allestire un Tour, che sarà contrassegnato dallo stesso amore e dalla medesima attenzione che hanno accompagnato il processo di produzione del disco. Colgo l’occasione per ringraziare tutte le persone che hanno collaborato al progetto».

Intervista a cura di Vincenzo Nicolello

ALBERTO FORTIS A ROMA doc (2)

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La band veronese è pronta ad iniziare il minitour in compagnia di un'icona del rock statunitense.

I Facciascura sono carichi, prontissimi a partire per il mini-tour che li porterà in giro per la penisola in compagnia di uno dei mostri sacri del rock americano, ovvero Shawn Lee.
La band veronese, fresca di uscita del nuovo singolo “New songs are no good” (in free download fino al 31 ottobre), che contiene un prezioso featuring proprio con Shawn Lee, ha risposto alle nostre curiosità pochi giorni prima della prima data, il 24 ottobre al The Lake di Piove di Sacco (PD).

Ciao ragazzi, prima domanda d’obbligo, come nasce il vostro rapporto con Shawn Lee?
Risponde Francesco Cappiotti (co-fondatore della band): Shawn è stato ed è uno dei miei idoli musicali. Ai tempi della sua uscita ho ascoltato Monkey boy, il suo disco d’esordio, fino allo sfinimento. Dopo molti anni, durante una sessione di registrazione in studio coi Facciascura, riascoltando il pezzo “New songs are no good”, che avevamo appena inciso, mi sono sorpreso a pensare: “qui ci starebbe bene la voce di Shawn Lee”. Ed è stata come un’illuminazione. Dopo aver trovato un indirizzo e-mail sul suo sito ufficiale abbiamo spedito senza troppe aspettative la nostra richiesta di collaborazione e incredibilmente nel giro di dieci minuti Shawn ci ha scritto personalmente chiedendo di mandargli il pezzo. Dopo averlo ascoltato le sue parole sono state: “new songs are no good…. it’s funny and I like it. I’ll do it!”

Il nuovo singolo “New songs are no good” sarà in free download fino al 31 ottobre, da cosa nasce questa scelta? C’è sempre meno fiducia nella discografia “fisica” anche da parte dei musicisti?
Si tratta di una semplice scelta di “condivisione” della nostra musica per un’occasione speciale, anche se è evidente che nessuno o quasi compra più dei singoli fisici. Personalmente sono ancora molto legato al supporto fisico e sono convinto che ci siano ancora dei margini di sopravvivenza. Uno sviluppo possibile nel futuro immediato è quello di stampare tirature limitate di cd o vinili da vendere esclusivamente ai concerti, quasi fossero oggetti di artigianato.

Il 24 ottobre parte il minitour con Shawn Lee come ospite, quando si è presentata la possibilità di averlo anche live? Siete emozionati di condividere il palco con un simile personaggio?
Quando abbiamo scelto “New songs are no good “ come terzo singolo del disco abbiamo pensato che fosse più efficace promuoverlo con dei live anziché farne un video. Shawn aveva appena terminato un piccolo tour inglese con Kelis (sì proprio Kelis!) ed era disponibile… l’occasione era da cogliere al volo e quindi siamo partiti con l’organizzazione di queste quattro date italiane. Inutile dire che l’emozione è molta, ma in questi casi è sempre meglio non pensarci.

Cosa deve aspettarsi chi verrà a vedervi live? Ci sarà spazio magari per interventi di Shawn Lee anche in altri brani?
Eccome! Lo show è diviso in due parti… nella prima ci saranno solo i Facciascura, nella seconda Shawn salirà sul palco e suoneremo brani tratti dai suoi dischi (alla nostra maniera ovviamente! ) E non mancheranno le sorprese….

Se doveste descrivere il vostro live show in tre parole, quali sarebbero?
Groovy. Loud. Real.

Qui l’elenco delle date dei Facciascura feat. Shawn Lee:

24/10/14: THE LAKE ( Piove di Sacco – Padova)
25/10/14: SPAZIO SENZA TEMPO ( Milano)
26/10/14: IL GIARDINO Music Club ( Lugagnano – Verona)
27/10/14: LE MURA – Roma

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Il loro è un suono onirico, inquieto, intenso. Un suono emozionale. Arrivano dalla Francia, sono in sei e si fanno chiamare Sound Sweet Sound…e se i loro brani vi fanno pensare a David Lynch, ci avete visto giusto.
Saranno live in Italia di supporto ai canadesi Elephant Stone al Tender Club di Firenze venerdì 10 ottobre.

Ciao ragazzi, è la vostra prima volta in Italia? Cosa vi aspettate dal pubblico italiano?
Ciao, è la terza volta che suoniamo in Italia, con il pubblico italiano abbiamo un legame speciale, è molto ricettivo e attento alla nostra musica. E’ un piacere suonare qua!

Il vostro è un suono così evocativo e inquieto, quali sono le immagini che volete provocare in chi vi ascolta?
E le vostre fonti di ispirazione invece?
E’ una domanda interessante, visto che il nostro secondo album “Holy songs and human scenes”, è stato costruito proprio per provocare quasi un percorso visivo e attorno a riferimenti cinematografici. Per esempio, il videoclip di “Up to you”, girato da Xavier Perez, è un tributo a David Lynch. Per quanto riguarda le band che ci influenzano, sicuramente la nuova scena psych-rock americana, con band come i Brian Jonestone Massacre o i Black Angels.

Come vi fa sentire il fatto che dividerete il palco con una band fantastica come gli Elephant Stone?
Siamo molto orgogliosi di questo, e felici di incontrarli. Anche se i nostri sound sono diversi, condividiamo alcune idee comuni, come l’apertura a ritmi e strumenti tradizionali.

Insomma cosa dovrà aspettarsi chi verrà a sentirvi live?
Noi cerchiamo di creare delle dinamiche di condivisione, quasi una trance collettiva con il pubblico, un viaggio…un vero e proprio trip che ciascuno può riempire con le sue personali immagini. E poi potenza.

Ultima domanda, se doveste definire il vostro suono in tre parole, quali sarebbero?
Semplicemente Sound Sweet Sound

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Giacomo Voli è stato uno dei concorrenti della seconda edizione di The Voice. Aspetto da rocker graffiante, abbigliamento aggressivo, una voce acuta e potentissima. In molti lo indicavano come favorito per la vittoria finale, ma nessuno aveva fatto i conti con suor Cristina, che a livello mediatico e di televoto non ha avuto rivali. Così per Giacomo è arrivato il secondo posto, una buona visibilità e il rimpianto di una mancata vittoria, che forse gli avrebbe offerto altri scenari musicali. Il passato è passato, lui non si è perso d’animo e dopo un breve periodo di riflessione è ritornato sul palco, per fare l’attività che ama: cantare. Ancora non sa se il suo futuro da artista gli consentirà di vivere con la musica, ma intanto ci prova. L’abbrivio che gli ha regalato lo show televisivo, è un buon viatico per un tour molto partecipato a livello di pubblico, in attesa di poter incidere quel disco e trovare un contratto in grado di farlo diventare un professionista. L’abbiamo incontrato ad Asti e lui gentilmente ci ha concesso questa intervista.

Trovare tue notizie antecedenti la scorsa primavera è davvero difficile. Vuoi dirci tu chi è veramente Giacomo Voli?
«Prima dell’esperienza televisiva di The Voice ero uno dei tanti cantanti * che proponeva generi che andavano dall’Hard Rock al Metal al Prog, che si esibiva in musical. In poche parole ero specializzato in cover, per prendere parte a qualche serata e racimolare quel minimo per rientrare dalle spese. Non pensavo assolutamente di poter diventare cantante a tempo pieno e comincio a crederci solo oggi, visto che è accaduto tutto così in fretta ed è ancora molto presto per fare progetti. Sicuramente il mio obiettivo è quello di crearmi un’identità definita e proporla al pubblico. In questo senso il talent è servito per avere visibilità. Al giorno d’oggi è difficile che si cerchino volti nuovi e che si voglia investire su di essi».

Come te ce ne sono tanti?
«Certo e voglio salutarli. Purtroppo il programma è fatto così, per quei pochi che emergono ce ne sono tanti, bravissimi che sono ritornati a casa. E’ il meccanismo del gioco, il rischio di queste avventure televisive».

Cosa ti ha dato in termini artistici il programma?
«Sicuramente mi ha riportato nella dimensione che io prediligo. Prima se dovevo immaginare una carriera musicale per me, non la vedevo con l’hard rock e il metal, ma con un qualcosa di più appetibile per il mercato discografico italiano. Avevo scritto alcuni brani che propongono sonorità vicine ai Subsonica o i Verdena. Ora invece The Voice mi ha fatto capire che comunque c’è spazio anche per il rock finalmente, anche a livello di mainstream».

Quali sono i musicisti a cui ti sei ispirato?
«Io amo il rock progressivo dei Dream Theater e il rock graffiante degli Skunk Anansie».

Dopo giugno, cosa è cambiato dal punto di vista professionale?
«Finita la trasmissione mi sono dato un mese di tempo per mettere a fuoco la situazione. In questo periodo ci siamo chiusi in sala prove con la band, per mettere insieme un repertorio da proporre nel corso dei concerti già fissati per i mesi estivi. L’intento è stato quello di uscire il più presto possibile, per far sentire alla gente che non ero sparito. Ne è uscito un tour che mi ha dato grandi soddisfazioni».

A livello di promozione come ti sei organizzato?
«Dopo la decadenza dell’opzione esercitata dalla Universal, che non ha dimostrato interesse per me, mi sono affidato ad un’agenzia, che curerà la promozione e cercherà l’etichetta migliore per me. Sono giorni di fermento, che metteranno chiarezza sul mio futuro».

Ritorniamo a parlare di The Voice e al momento in cui sei stato selezionato. Tu puntavi ad avere Piero Pelù come coach?
«Diciamo che ho affrontato la selezione senza illudermi, con la filosofia di chi si sarebbe accontentato. Ovviamente quando lui si è girato ovviamente ne sono stato lusingato. Anche J-Ax mi ha tentato, per il suo passato punk ma… naturalmente Piero era quello più affine al mio modo di intendere la musica! Lui è stato il rocker italiano più onesto e sebbene non canterò il suo stesso genere non ho avuto dubbi sulla scelta. Devo comunque dire che sono stato sorpreso dall’interesse della Carrà e anche quello di Noemi durante le puntate. Rifarei sempre la stessa scelta!».

Non possiamo dimenticare come la trasmissione sia stata influenzata pesantemente dalla presenza di suor Cristina Scuccia, che ha sparigliato le carte. Come hai vissuto questo strapotere a livello mediatico?
«Non essendo un vero e proprio reality, di riscontri con l’esterno ce n’erano parecchi. Lei è sempre stata…una suora! Nelle settimane di convivenza ha continuato a fare la religiosa prima ancora che la cantante. Forse il problema non è lei, ma ciò che i mass media hanno fatto di lei. Suor Cristina ha regalato a tutta la trasmissione una visibilità internazionale impensabile, ed è anche grazie a questo che ricevo molte mail dall’estero, anche se poi tutti ricorderanno la seconda edizione di The Voice come quella “della suora”…».

Ti senti il vincitore morale, visto che lo scontro finale vi ha visti uno contro l’altra?
«Per me è stata una sorpresa arrivare in finale. Meritavano in molti: artisti come Daria Biancardi o Dylan erano fortissimi, e così molti altri concorrenti. E’ andata bene così. Diciamo che mi son sentito di rappresentare quelli come me che vorrebbero vivere facendo musica. Suor Cristina ha fatto una scelta che forse rende un po’ difficile contemplare anche la vita da musicista. Dopo essere entrata nel vortice di The Voice non poteva nemmeno tirarsi indietro, visto che ci sono penali per chi rinuncia. Di sicuro per lei il voto è un grande freno per una possibile carriera artistica».

E’ un dato di fatto che forse oggi avresti in mano quel contratto riservato al vincitore…
«Eh oh… Tutti i concorrenti speravano in quell’unico primo posto che avrebbe regalato il contratto per l’incisione del disco. Al di là dell’aspetto mediatico un disco è un disco e ora quel diritto spetta soltanto a suor Cristina. The Show must go on, come diceva il mio mito!».

Intervista e photogallery a cura di Vincenzo Nicolello

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Reduce dall’apertura dei live di Ligabue a Milano e Roma, il paroliere aretino Il Cile ha di recente dato alle stampe un nuovo album – il secondo – intitolato “In Cile Veritas”, scritto un romanzo e partecipato alla colonna sonora della fiction “Braccialetti Rossi”. A dicembre partirà inoltre il suo nuovo tour solista e per l’occasione lo abbiamo intervistato. Ecco cosa ci ha raccontato.

Il 2 settembre è uscito “In Cile Veritas”, tuo secondo lavoro di studio, che sta riscuotendo ottimi consensi. Sapevi di me” è il singolo che ne ha anticipato la pubblicazione: come mai la scelta è ricaduta su questo brano in particolare?

Perchè questo per me è davvero un brano importante. il nucleo espressivo dell’intero album come contenuti, musica e forma canzone.

In che modo sei cambiato (artisticamente) in questi due anni?

Non sono poi così cambiato, la goliardia toscana che da sempre mi contraddistingue non mi ha mai abbandonato come si evince dal titolo, mi sono impegnato a incanalare la rabbia in musica e parole in maniera più meditata e con un cuore più aperto verso la speranza.

Come nascono le tue canzoni?

Come direbbe un grande… le mie canzoni nascono da sole vengono fuori già con le parole.

Il 2014 ti ha riservato moltissimi impegni: per prima cosa hai pubblicato un romanzo intitolato “Ho smesso tutto”…

Si,sono stato molto impegnato e tutto ciò è bellissimo per chi fa il mio mestiere,l’esperienza del libro è stata piacevole ed importante, poiché scrivere in prosa è una sfida che permette di lavorare a nuovi lati della mia scrittura.

Hai anche partecipato alla colonna sonora della seguitissima fiction “Braccialetti rossi” con il brano “Non mi dimentico”, confermi?

Certo, ho semplicemente cantato una canzone di Niccolò Agliardi e devo dire che la risposta è stata molto positiva

Infine hai aperto i concerti negli stadi di Ligabue a Roma e Milano: come è stata questa esperienza?

E’ stata un’esperienza davvero importante…come lo fu durante le aperture di Jovanotti e quelle dei Negrita.

Quando partirà invece il tuo nuovo tour solista?

A breve le date saranno sul mio sito e i miei social, si comincia da dicembre.

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Era la fine degli anni ’70 e dalla Francia si diffuse un sound nuovo e sorprendente. L’elettronica la faceva da padrona e le voci erano “trasfigurate” con un marchingegno fino ad allora quasi sconosciuto: il vocoder. Sentire alla radio brani come Future woman, Fils du ciel e On the road again, non rendeva giustizia alla band. I Rockets, questo il nome del gruppo, proponeva un look strabiliante, fatto di teste rasate, tute spaziali e pelle argentata.
Per i loro spettacoli introdussero i laser, il fumo e gli effetti speciali, diventando i pionieri dei concerti moderni, che ancora oggi sfruttano quelle trovate geniali.
Il passato ci racconta che dopo un decennio di grandi successi, qualcosa si ruppe. Trovare nuove idee per stupire la gente diventava sempre più problematico e quel sound tanto innovativo, alla fine era diventato quasi un’abitudine per le orecchie del pubblico.
Così la band si sciolse e quel grande capitale musicale finì nel dimenticatoio.
Qualcuno, tuttavia, non si è mai rassegnato all’oblio e così, piano piano ha raccolto i cocci e ricreato dal nulla il gruppo. L’artefice di questa rinascita è Fabrice Quagliotti.
In occasione dell’uscita dell’album Kaos, gli abbiamo rivolto alcune domande, per (ri)scoprire il gusto antico e moderno dei Rockets.

Fabrice, i Rockets ritornano alla ribalta. E’ pronto Kaos il nuovo disco. Che cosa regalerà al pubblico questo lavoro?
«Sarà un album di spessore e di qualità, che conterrà brani che spazieranno dal clima “Space” al rock. Ma ci sarà ampio spazio anche per la melodia. Si tratta del frutto di 10 anni di lavoro e ne vado particolarmente fiero».

Qual è la filosofia del disco?
«Non è facile parlare di filosofia. Il titolo parla da se… Kaos. In fondo basta guardare il nostro mondo dove sta andando per capire quale sia il disorientamento della gente….è un disco dove ogni brano racconta un pezzettino del quotidiano, nel bene e nel male. Sono 12 brani con altrettanti modi diversi di arrangiare la musica».

Chi ha scritto testi e la musica?
«I testi sono di John Biancale, il nostro cantante canadese. I brani sono miei, ma sono anche il frutto della collaborazione fantastica tra i 4 musicisti. La stesura di ogni singolo pezzo è è la conseguenza di un confronto serrato con John (Biancale ndr)»

Il vostro sound è sempre stato all’avanguardia, c’è stato lo spazio per introdurre qualche innovazione tecnica?
«Innovazioni tecniche ce ne sono tante. Per la composizione ho utilizzato tanti synth analogici mescolati con i synth digitali e le nuove generazioni di virtual. Ovviamente il vocoder non è stato lascito nell’angolo. Per concludere parliamo dei mix, che sono stati fatti prima in digitale poi in analogico».

Ci anticipi la track list?
«Certamente ecco i titoli: We Are All Around; World on Fire; Evolution; Through the Night;
Party Queen (feat. Muciaccia); Crying Alone; Faby’s Back; Shine on Me; Our Rights; Lost in the Rhythm; Heaven 58; Number One»

Già in passato siete usciti con materiale inedito, ma avete avuto difficoltà nella promozione e nella distribuzione. Siete riusciti a trovare qualche soluzione per questi problemi?
«Ho avuto la fortuna di incontrare il mio gemello astrale: l’avvocato Giorgio Tramacere. E’ stato lui a mettermi in contatto con Roby Benvenuto e la Smilax Publishing. In più abbiamo sottoscritto un accordo per la distribuzione mondiale con la Warner. Il lancio partirà con il singolo “Party Queen”, frutto di una bellissima collaborazione con l’amico Pippo Muciaccia, per il quale abbiamo realizzato un videoclip a dir poco eccezionale. Il clip è sta realizzato sotto la regia di Massimo Falsetta con l’inserimento di 2 ballerini d’eccezione: Steve Dancer e Em Lo Mor; senza dimenticare le due belle girls, Flavia Plebani e Sabrina Nicole. Il montaggio e le riprese sono di livello internazionale e sono curati della Majesctic Fim.Diciamo che questa volta si fa sul serio. Abbiamo creato un’equipe veramente al top».

Ci presenti il gruppo che attualmente sta riportando in giro per l’Italia una band che negli anni ’80 faceva impazzire il pubblico.
«Attualmente la band è composta dal sottoscritto che suona le tastiere, da John Biancale voce, Gianluca Martino alla chitarra, Rosaire Riccobono al basso e Eugenio Mori alla batteria».

Quali sono stati i passi di Fabrice Quagliotti per riformare i Rockets?
«Riformare i Rockets? Un parolone. I Rockets non si possono riformare nel senso che, quel che è stato non tornerà mai più per mille motivi. Diciamo che porto avanti il nome Rockets per gratitudine nei confronti di un gruppo che mi ha permesso di arrivare laddove pochi arrivano. Sicuramente è un nome difficile da portare: un fardello, certo, ma anche un grande onore».

Quali sono state le difficoltà e soprattutto hai incontrato qualche opposizione dai vecchi compagni?
«Difficoltà con i vecchi Rockets? Nessuna. Avrei voluto tirare dentro almeno un elemento della band, ma il sogno non si è concretizzato».

Spesso abbiamo sentito dire il passato è passato e non ritorna, ma non ti è mai venuto il desiderio di riportare sullo stesso palco Gerard, Christian, Alain e Claude?
«Ritornare on stage con i vecchi compagni non mi tenta. Mi sento regolarmente con Claude (Lemoine ndr) il quale mi da consigli. Ma sono felice di avere i nuovi compagni: John, Rosaire, Ug e Gianluca. Sono loro i Rockets di oggi».

Dopo la pubblicazione di Kaos, partirete con un tour?
«Il 18 settembre presso il Codice Club di Milano proporremo uno show case di presentazione del disco. La serata è organizzata da NFloris Event. Subito dopo abbiamo intenzione di proporre una serie di live e showcase. Per essere aggiornati potete visitare il sito www.rocketsland.net oppure il profilo Facebook di Fabrice Quagliotti».

A cura di Vincenzo Nicolello