Interviste

Le interviste di Concertionline ai protagonisti della musica: tutta la musica italiana e internazionale raccontata dalle parole degli artisti e delle band. Musica rock, pop, metal e non solo.

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Ieri, alla seconda serata del Festival di Sanremo, Ezio Bosso ha incantato l’Ariston e i telespettatori con una stupenda esibizione e con la sua grande umanità, simpatia e profondità.

La musica siamo noi, la musica è una fortuna che condividiamo. Noi mettiamo le mani ma lei ci insegna la cosa più importante che esiste: ascoltare.

La musica è una vera magia, infatti non a caso i direttori hanno la bacchetta, come il mago.

La musica è una fortuna. E soprattutto come diceva il grande maestro Claudio Abbado è la nostra vera terapia.

Questi sono solo alcuni stralci della intervista che ha preceduto la sua esibizione sul palco dell’Ariston. Ma vale la pena guardare e riguardare sia l’intervista che la sua esibizione.
 

 
Dopo l’emozionante esibizione del compositore e direttore d’orchestra, l’hashtag #EzioBosso è rimasto al n°1 della classifica dei trend topic di Twitter in Italia per otto ore consecutive. Il pubblico del Teatro Ariston ha accolto la sua “Following A Bird” con una standing ovation e, durante la sua esibizione, lo share è cresciuto del 10% (dal 45% al 55%). Intanto, il suo album “The 12th Room” (Egea Music) è primo nella classifica di vendita iTunes in Italia e continuano a crescere i like della pagina Facebook ufficiale dell’artista, che è passata in poche ore da 5000 like a più di 150.000.

In tanti, quindi, hanno scoperto l’artista e la sua musica proprio ieri sera, come regalo gradito e inaspettato dal Festival di Sanremo.

Ad aprile Ezio Bosso sarà in concerto in piano solo nei teatri d’Italia con “The 12th Room Tour”. Queste le prime date annunciate: l’8 aprile all’Auditorium del Conservatorio di Cagliari, il 12 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il 14 aprile al Teatro Ermete Novelli di Rimini, il 16 aprile al Teatro Ristori di Verona, il 19 aprile al Teatro Puccini di Firenze e il 22 aprile al Teatro Toniolo di Mestre (VE).

Cover_the12throomDurante il tour presenterà il suo disco d’esordio “The 12th Room”, di cui Ezio ha parlato brevemente anche durante il suo intervento a Sanremo.

“The 12th Room” è un concept album composto da due cd: un primo disco con quattro brani inediti e sette di repertorio pianistico, ognuno dei quali vuole rappresentare metaforicamente le fasi che attraversiamo nella vita, e un secondo disco contenente la Sonata No. 1 in Sol Minore che simboleggia la dodicesima stanza.

«Questi brani, come sempre nelle mie scelte, rappresentano un piccolo percorso meta-narrativo – racconta Ezio Bosso – C’è una teoria antica che dice che la vita sia composta da dodici stanze, nessuno può ricordare la prima stanza perché quando nasciamo non vediamo, ma pare che questo accada nell’ultima che raggiungeremo. E quindi si può tornare alla prima. E ricominciare».

Agli appuntamenti in Italia, si aggiungono gli impegni all’estero: domani, venerdì 12 febbraio, debutterà il nuovo spettacolo del Royal Ballet con le musiche di Ezio Bosso “Within the Golden Hour”, di Christopher Wheeldon, alla Royal Opera House di Londra (per informazioni: www.roh.org.uk), mentre sabato 13 febbraio Ezio Bosso dirigerà la Lituanian Chamber Orchestra al Teatro Filarmonico di Vilnius (Lituania) con la partecipazione del violinista Sergey Krylov.
 

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“Ci sentivamo molto legati all’Italia. Sono sempre stato un grande ammiratore dell’arte italiana, specialmente del Rinascimento. C’è uno splendore naturale e una qualità di vita impossibili da trovare altrove. Da voi la vita in se stessa è molto più importante che non i progetti di carriera. Comunque è la meta finale di ogni giorno di lavoro”. Così David Bowie descriveva il nostro Paese nel 1992, per spiegare la scelta di sposarsi proprio qui, a Firenze, nella chiesa episcopale americana di St. James in via Rucellai.

Dopo essersi sposato con rito civile a Losanna con Iman, modella di sangue reale somalo scoperta e lanciata da Yves Saint Laurent, Bowie ha scelto di celebrare il rito religioso proprio a Firenze, accompagnato da un gran numero di star come Yoko Ono e Bono Vox. Una cerimonia blindatissima e un soggiorno coperto dalla privacy più totale.

I coniugi Bowie non erano  nuovi all’Italia, che avevano già esplorato in barca a vela:

“Sei settimane di vacanza in barca su e giù per le coste italiane. In una situazione così claustrofobica si ha veramente l’opportunità di conoscere bene qualcuno. Alla fine delle sei settimane o sei pazzo d’amore o non sopporti neppure più la vista dell’altro. Per noi ha funzionato bene. Ogni giorno di quella vacanza scoprivamo di amarci di più. Quando siamo arrivati a Firenze, abbiamo detto: Questa è la nostra piccola Shangrila, il luogo che amiamo di più fino ad oggi”. (rivista MODA n.99 del luglio 1992).

Oggi che il Duca Bianco ha detto addio per sempre ai suoi tanti fan sono in molti a ricordare la sua predilezione per il nostro Paese. Firenze ricorda commossa il grande amore di Ziggy Stardust per la città e ricambia con l’amore e il cordoglio di tutti coloro che non potranno mai dimenticare le emozioniprovate grazie alla sua musica.

David Bowie e moglie

Fonte immagine: solarey.wordpress.com

 

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Il 6 gennaio arriva al Teatro Verdi di Firenze lo spettacolo, ideato e diretto da Chiara Noschese, “The Blues Legend”, ispirato ai “Blues Brothers” ma non solo: si tratta di una vera e propria cavalcata tra i più grandi successi della storia del blues, una panacea per gli amanti del genere ma un modo anche per innamorarsi di questo vero e proprio modo di pensare la musica, come è successo alla stessa regista Chiara Noschese. “Mi sono innamorata e ho iniziato ad approfondire la mia conoscenza del blues proprio grazie a questo spettacolo; conoscevo già ovviamente i brani più noti e fortunatamente fin da piccola, grazie anche alla mia famiglia, ho sviluppato un grande amore per la musica, ma questo spettacolo mi ha aperto il cuore, facendomi del tutto entrare in un certo mood che solo il blues sa dare. E’ uno spettacolo coinvolgente, una vera e propria cavalcata, infatti credo sia impossibile vederlo interamente da seduti senza tenere il tempo e volersi scatenare. Ho scelto un cast di cui ho potuto apprezzare le doti canore straordinarie e in primis ho voluto Loretta Grace, la cui estensione ha pochi eguali, e che già avevo potuto osservare come sua vocal coach durante “Sister Act”. Vedrete assolutamente qualcosa di unico.”

“Lo spettacolo è incentrato sul rapporto uomo-donna: gli uomini un po’ più pigri ma sognatori, le donne più concrete; l’elemento che li unisce e che li “salva” è proprio il blues, perchè la vera protagonista dello show è la musica. Questa musica così straordinaria, che ti prende sottopelle e ti porta a ballare, saltare, cantare a squarciagola. Il blues è gioia e questo spettacolo è gioia pura, ho voluto portarlo in scena proprio per questo ed il pubblico fin qui mi ha dato ragione.
Vi sfido, provate a non cantare a squarciagola “Everybody needs somebody”!!”

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Gioele Valenti si racconta e parla del suo ultimo album con i Laissez Faire

E’ da poco uscito l’ultimo lavoro di Gioele Valenti (aka Herself), stavolta accompagnato dalla band The Laissez Faire: il disco si chiama Gleaming e abbiamo fatto quattro chiacchiere con Gioele per farci raccontare come è nata questa splendida collaborazione.

Come è nata la collaborazione con i Laissez Fairs?
Gioele: Sono un gran fan dei The Steppes, band di John Fallon, sin da adolescente. Sono praticamente cresciuto, e umanamente e artisticamente, con la loro musica, assieme a quella di tante altre band coeve. Nel corso dell’anno scorso, amici comuni ci hanno presentati, e ho così avuto modo di tributargli il mio rispetto. John Fallon, dal canto suo, ha da subito avuto belle parole su Herself, e su un modo – il mio – di approcciare la materia pop, evidentemente a lui affine. Mi ha così presentato Joe Lawless, col quale condivide i The Laissez Fairs. Si è subito capito che la cosa poteva funzionare. Questo, il detonatore.
Che cosa hanno portato alla tua musica?
Gioele: Credo un completamento. Quella controparte che evidentemente attendeva, latente, nella mia psiche. Quell’esperienza d’ascolto, e che datava al tempo degli Steppes, e che aspettava, come il genio nella bottiglia, di esser liberata. Io ho messo il songwriting di origine folk, loro la lisergia sixties, di cui sono maestri, a mio avviso, incomparabili.

5 brani ma uno spettro musicale coperto molto ampio, dal blues al folk…sono pezzi che avevi nel cassetto, composti in un lungo arco di tempo? Che significato ha per te questo quinto disco solista?
Gioele: Sono tornato alla scrittura folk, e più precipuamente ad Herself, dopo l’esperienza fatta col marchio Lay Llamas, portata a maturazione nel corso di una tournee nordeuropea. Avevo una gran voglia di tornare a scrivere canzoni, per il semplice gusto di farlo, senza grandi aspettative, a dirla tutta… due dei cinque brani mi giravano in testa da anni, gli altri tre sono recenti… ho approfittato del momento giusto per proporli a John. Questo disco rappresenta il tornare a scrivere per pura gioia, è un disco fine a se stesso, l’art pour l’art. Se consideri che sono tornato a scrivere avvalendomi della collaborazione di uno dei miei idoli di sempre, bé, puoi ben capire cosa esso possa rappresentare, senza che debba aggiungere altro. I The Steppes hanno prodotto autentici capolavori della storia del rock psichedelico, annoverabili secondo il mio modesto avviso tra i grandi del genere, da Pink Floyd in giù, e molto prima che la neo-psichedelia fosse un trend con cui fare soldi…
Ci racconti i 5 brani uno per uno in qualche parola?
Torches 1 and 2: i due movimenti di un unico film, eminentemente autunnale, una di quelle pellicole anni ‘70; viali di un parco, sterrati, ricoperti di foglie, ocra, giallo, arancio.
I Don’t Mind: ribellione, riluttanza a crescere, chiarezza, onestà e indipendenza: alla fine, ognuno è costretto a fronteggiarsi e, in ultima istanza, ad accettarsi così com’è.
The River: folk irlandese.
Nihil: il punto di vista esistenziale è un organismo, non è fisso, è un qualcosa di vivo, di organico appunto, che cambia col trascorrere del tempo… e il tempo fatalmente corre verso il nulla, la nostra ultima e più vera natura.
Stai per partire in tour, che tipo di set deve aspettarsi chi verrà a sentirti?
Canzoni acustiche, voce, stompbox, campanelli, nudi e crudi.
Infine, il disco a mio avviso ha una forte impronta cinematografica, riusciresti ad associare 5 film, uno per canzone e a spiegarci il perché di queste associazioni?
Non saprei per le altre, ma almeno per Torches 1 e 2, direi Il Campione, di Franco Zeffirelli, pellicola oscura ma a suo modo pregna di cupa nostalgia, sacrificio e amore… I Don’t Mind, direi Kramer contro Kramer… per i motivi che ho esposto sopra, per una forma di ritrosia a crescere, per un’integrità bambinesca che, pur essendo la parte più ferina di noi, è anche la più vera.

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I Verdena hanno da poco ricominciato a suonare live, subito con un sold out a Firenze, per presentare il secondo volume di “Endkadenz”, disco che ha caratterizzato il loro 2015. Ne abbiamo parlato con il batterista Luca Ferrari.
“La scelta di dividere in due i volumi è stata della casa discografica, noi abbiamo messo su le tracklist un po’ così a caso, cercando di dividere equamente i brani: 4 col piano di qua, 4 col piano di là, 3 più rock nel vol.1, tre nel volume 2 e così via. – racconta Luca – I due dischi sono un po’ diversi comunque, il primo era più lineare, compatto, questo ha più variazioni.”

“A livello di batteria è un disco, entrambi i volumi, molto importante, un lavoro certosino molto bello da suonare live, soprattutto questo vol.2 è molto divertente da suonare. E’ bello suonare nei club, negli ambienti più piccoli c’è un suono migliore, soprattutto per la batteria, quindi per certi aspetti personalmente mi trovo meglio. E poi è bello anche trovarsi immersi nella folla, con le persone che ti aspettano dopo tanto tempo, fa strano perchè poi noi siamo stati fermi per tanto tempo, però è comunque bello.”
“Nel prossimo disco magari useremo l’orchestra, chissà, sarebbe bello e non vorrebbe dire per forza addolcirsi.”

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I Diverting duo sono una band di ethereal wave/dream pop di base a Cagliari. Si chiamano semplicemente Sara e Gianmarco e la loro musica è come un lungo respiro, una sfumatura di colore, il particolare di un quadro messo a fuoco, una sequenza di immagini che si ripetono e svaniscono, colori caldi e freddi, chitarre come sintetizzatori, sintetizzatori come chitarre, batterie elettroniche. Tornano in questo 2015 con il loro nuovo album “Desire” e proprio per parlare di questo siamo andati a far due chiacchiere con loro.

Ciao, ci raccontate come nascono i Diverting Duo?

Ci siamo formati nel 2008. Prima dei Diverting duo suonavamo entrambi in un’altra band di post rock ma sentivamo ormai l’esigenza di fermarci e rimettere in ordine le idee per creare una band che rispecchiasse meglio i nostri alscolti e i nostri pensieri.

Per quanto riguarda la creazione di Desire, io ci vedo un lavoro certosino sui dettagli e le finiture del suono, è stato così? Quanto è stato in “incubazione” il disco?

I pezzi sono stati scritti nel giro di circa un anno. Alcuni di questi pezzi sono poi stati rilavorati in fase di registrazione, a volte completamente stravolti. Altri improvvisati sul momento in base all’idea e registrati quasi in diretta. Questo metodo “plug and record” ci è particolarmente congeniale, il metodo che piu’ ci ha dato soddisfazione. Usare l’idea, lavorarla finchè è ancora fresca e non lasciare in stallo un pezzo per mesi. Per quanto riguarda i suoni siamo sicuramente perfezionisti e tendiamo a non appesantire troppo le strutture. Lasciamo ad ogni suono il suo spazio e lavoriamo puntando specialmente sulla qualità delle macchine (chitarre e synth) e la conoscenza della strumentazione.

Detto questo tendiamo a visualizzare cosa vorremmo ottenere dai nostri lavori molto presto. Immaginare il tipo di atmosfere è il primo lavoro che facciamo, ne parliamo a lungo, ci procuriamo la strumentazione per realizzare la nostra idea. Potremmo quindi dire che i nostri dischi sono costantemente in incubazione.

La forza di questo lavoro penso sia creare un suo mondo non solo sonoro ma visuale, avete pensato magari a dei filmati o ambientazioni particolari per il live?

La nostra musica in particolare si adatta perfettamente con un certo tipo di immaginario, scenario onirico ed etereo e le immagini riescono ad accompagnare in maniera sorprendente i nostri live.
Per questo motivo noi stessi tendiamo a girare video che in definitiva risultano essere piu dei “visual” che dei veri e propri video clip, che usiamo poi anche durante i nosti live.

In realtà potendo avere le giuste luci sul palco ci piacerebbe non usare i visual e lasciare all’immaginario delle persone le ambientazioni.

Ci raccontate l’incontro con Carl Saff e cosa ha aggiunto lui al disco e averlo conosciuto alla vostra esperienza personale?

Carl Saff è un tecnico, si occupa da sempre del mastering dei nostri pezzi. Per questo lavoro che abbiamo registrato e mixato interamente da noi siamo tornati da Carl per il suo prezioso lavoro di finitura sull’album.

Infine un desiderio per il futuro dei Diverting Duo

Che il nostro disco esca prima che scoppi la terza guerra mondiale. Ahah
Abbiamo già iniziato il processo immaginifico che ci porterà al prossimo disco/progetto; Il nostro desiderio è quello di continuare a fare quello che facciamo, suonare e girare un po il mondo.

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Portare poesia e musica nei borghi dimenticati dell’Appennino tosco-emiliano; un’impresa che da anni stanno portando avanti con amore Daria Balducelli, Azzurra D’Agostino e i componenti dell’Associazione Sassi Scritti che, con il loro piccolo festival “L’importanza di essere piccoli” (appunto) sono ormai diventati un appuntamento imprescindibile per l’estate dei toscani e degli emiliani, o di quanti vogliano salire a prendere una buona dose di aria pulita e bellezza sull’Appennino.
“Riusciamo ad andare avanti grazie al contributo delle istituzioni, che ci tengo a ringraziare – sottolinea Daria Balducelli – Per noi è un orgoglio riuscire a portare artisti che stimiamo e apprezziamo in luoghi così speciali, che spesso loro stessi non conoscono e da cui poi restano colpiti e influenzati. Anche quest’anno porteremo ad esibirsi in luoghi unici artisti che sono stati per me e Azzurra colonna sonora degli anni universitari e adolescenziali, come Cristina Donà e Francesco Di Bella, nonchè artisti nuovi come Dellera e Diodato. Abbiamo scelto questi nomi per toccare tutte le varie sfaccettature del panorama indie italiano, con dei live acustici che saranno sicuramente unici, anche perchè uniti a poeti scelti per contrasto o assonanza con il mondo musicale dei vari artisti.
C’è una bellissima compenetrazione tra musica e poesia e già gli altri anni ne abbiamo avuto prova, vedremo cosa accadrà quest’anno. Di certo sarà qualcosa di unico, creato appositamente per ritrovare la bellezza non solo dei luoghi, ma di musica e parole. Il paesaggio poi, fa il resto.”

Questo il programma de “L’Importanza di Essere Piccoli 2015”:

3 agosto – Castello Manservisi, Castelluccio di Porretta Terme (BO)- h.21
ELISA BIAGINI (lettura/incontro)
CRISTINA DONA’ (live acustico in duo)

4 agosto – “Scaialbengo” centro culturale ippico, Castel di Casio (BO)- h.21
GUIDO CATALANO (lettura/incontro)
FRANCESCO DI BELLA (live acustico)

5 agosto – Castagno di Piteccio (PT)- h.21
A. LONGEGA e A. TEODORANI (lettura incontro)
DELLERA (live acustico)

6 agosto – Pieve della Rocca di Roffeno, Vergato (BO) )- h.21
EMILIO RENTOCCHINI (lettura/incontro)
DIODATO (live acustico)

Tutti gli eventi sono a ingresso libero
in caso di pioggia si svolgeranno ugualmente nei luoghi indicati.

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Venerdì sarà al Teatro Puccini di Firenze lo spettacolo "Il vestito di Marlene", nato dall'unione della band cuneese con la compagnia di danza Mvula Sungani: Riccardo Tesio ci racconta com'è nata questa idea.

Unire la musica rock, anzi le canzoni di una specifica band, con la magia della danza….possibile?
Di certo in Italia ancora non ci aveva pensato nessuno, almeno fino ad 1 anno e mezzo fa: è allora che la compagnia di danza Mvula Sungani ha contattato i Marlene Kuntz proponendo loro di organizzare uno spettacolo che unisse ai brani della band delle coreografie studiate appositamente, in un tentativo di commistione artistica assolutamente inusuale.
Riccardo Tesio, chitarrista dei Marlene Kuntz, ci ha raccontato come è nato Il vestito di Marlene” (questo il titolo dello spettacolo) e quali sono le suggestioni che provoca la commistione di musica e danza.

Ciao Riccardo, com’è nata l’idea de “Il vestito di Marlene”?
L’idea è nata dalla compagnia di danza di Roma Mvula Sungani, che ci conosceva e conosceva le nostre canzoni; circa un anno e mezzo fa ci hanno contattato dicendoci che avevano creato una coreografia su “Ape Regina” e volevano proporci uno spettacolo che unisse i nostri brani con la danza; noi siamo stati entusiasti e li abbiamo incontrati a Perugia, dove ci hanno fatto visionare un video di questa coreografia sul nostro brano. Siamo rimasti totalmente affascinati da questa nuova possibilità e dimensione e da lì è poi partita la costruzione di tutto lo spettacolo.

Questa nuova dimensione, questa nuova sfumatura dei Marlene che portate in scena, che suggestioni ti ha dato?
Sicuramente è qualcosa di totalmente nuovo ed interessante; vedere delle coreografie sui nostri brani è emozionante in primis per noi.

La scelta dei brani dello spettacolo com’è nata? C’è un filo conduttore?
Nella scelta dei brani abbiamo lasciato campo libero alla compagnia di danza, in base alle ritmiche e alle melodie che si prestavano meglio ad essere ballate; il filo conduttore che hanno trovato è quello della figura femminile. Molti brani dei Marlene parlano della donna, in una dimensione sia spirituale, sia emozionale, sia più sensuale, piuttosto che nel rapporto d’amore ed è proprio la figura della donna che fa da guida lungo lo spettacolo.

Qual è stata la reazione del pubblico, abituato magari a vedervi in una dimensione più rock?
Molto positiva, la gente resta affascinata da questa novità della commistione tra canzoni e danza e sicuramente è sorpresa sia dalle coreografie, sia dalla scenografia studiata dalla compagnia di danza

Siete reduci dal tour celebrativo di Catartica e adesso vi ributtate in questo nuovo spettacolo, quali sono le sensazioni?
Questo spettacolo è una cosa totalmente nuova, anche se già avevamo suonato nei teatri, quindi c’è quella leggera tensione, quell’elettricità e voglia di far bene di chi vuole mostrare alla gente una dimensione diversa dei Marlene nel migliore dei modi, mentre il tour di Catartica diciamo che è stata più una festa con dei vecchi amici, eravamo più rilassati e sapevamo bene cosa stavamo facendo, ce la siamo goduta come una festa vera e propria.

Una delle caratteristiche, da sempre, dei Marlene, è stata quella di rinnovarsi e voler sperimentare e “Il vestito di Marlene” ne è l’ennesima prova. Cosa vi porta sempre a sperimentare e cercare nuove strade?
Noi lo facciamo in primis per noi stessi, ci piace sperimentare e al contrario ci annoia l’idea di ripeterci, per quanto sarebbe di certo una scelta più furba. E’ stimolante cercare nuove dimensioni, a volte va bene, a volte meno ma l’idea di ripetersi è troppo semplice, meglio mescolare un po’ gli ingredienti.

Quali sono i progetti dei Marlene Kuntz per il 2015?
Oltre a portare in giro questo spettacolo stiamo scrivendo musica nuova, ma siamo ancora agli embrioni, tra qualche mese vedremo a che punto saremo e decideremo cosa fare e in che tempi.

Tra qualche mese uscirà anche “Complimenti per la festa”, il documentario sulla storia dei Marlene Kuntz finanziato attraverso il crowdfunding
“Sì, sarà un documentario sulla scia di “Petali di Candore”, una VHS che uscì nel 1997; insomma non un documentario classico. Anche questa avventura è partita un po’ per caso, conoscendo Simone Cargnoni (fotografo che ha poi curato il booklet di “Nella tua luce”, penultimo album dei Marlene; ndr) tre anni fa dopo un concerto a Trento; abbiamo poi scoperto che si occupava non solo di foto ma anche di documentari e così, parlando un po’ con lui e Sebastiano Luca Insinga (regista, ndr) è venuta fuori l’idea di “Complimenti per la festa”. Lo vedrete, non sarà un banale documentario.

Qui le prossime date de “Il vestito di Marlene”:

6 marzo FIRENZE
7 marzo VIGNOLA (MO)
1 e 2 aprile ROMA
10 aprile ASCOLI
16 aprile MESTRE
17 aprile VICENZA

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Il giovane cantautore Alessandro Vinci vive a Cork, in Irlanda, da più di due anni: ci siamo fatti raccontare com'è fare musica là e com'è nato il suo disco d'esordio.

Alessandro Vinci è italianissimo, ma ha fatto dell’Irlanda la sua seconda patria: vive a Cork con la sua famiglia e lì ha scritto buona parte del suo disco d’esordio, sotto il moniker The Last Vinci (che è anche il titolo di questo primo album da poco uscito). Il disco sembra proprio narrare la sua parabola e, più in generale, una parabola di vita, che ti porta a fare delle scelte con l’unico obiettivo di “essere felice”. Ne abbiamo parlato con lui.

“Yesterday is history, tomorrow is a mystery but today is a gift,
that’s why it’s called the Present.”
Questo è il proemio del tuo disco d’esordio. Non posso non chiederti
il perchè della citazione da Kung Fu Panda e cosa rappresenta per te.

Diciamo che rappresenta un po’ tutto. Vivere la vita come un dono è
una cosa un po’ assurda di questi tempi.Tutti pensano ad arrivare, a
farcela, si guarda sempre a quello che verrà. Anche io ero così, ed
ero vittima di questa attitudine. Quando ho cominciato i THE LAST VINCI
ero alla fine del mio viaggio con i No Conventional Sound dove,
dopo un’esperienza Major molto produttiva ma frustrante, mi sono
chiesto: perché io faccio musica? La musica è qualcosa di importante
per me oppure la faccio solo per un secondo fine? Mi sono promesso che
se mi fossi rimesso in ballo con un altro progetto l’avrei fatto
diversamente, godendo di quello che facevo prima di tutto e
smettendola di pensare a quello che verrà dopo. Se qualcosa verrà
dopo, sarà la conseguenza di come vivo il presente. Io vogllo essere
felice ORA, non domani.
E poi il mio nick name nei No Conventional Sound era Panda. Citare
quella frase è stato un po’ come un testamento per chiudere un
capitolo ed aprirne un altro.

Ti muovi tra Torino e Cork, che a parte tutto secondo me hanno delle
similitudini, trovo l’atmosfera irlandese molto simile a quella
Torinese, o viceversa, ma forse sono pazzo io. Com’è lavorare in
entrambe queste realtà?

A dir la verità io frequento ormai poco Torino. Diciamo che ho
lavorato nella scena torinese, e sono ancora aggiornato grazie ai miei
cari Satellite (la band che suona con lui nel disco, ndr) che fanno sponda tra Torino e Cork
ormai da 2 anni.
Le similitudini sono molte tra la grigia Torino e la grigia Irlanda. La
grossa differenza è la genuinità degli irlandesi e il fatto che se
porti avanti un progetto musicale non sei considerato un alieno. In
Irlanda praticamente tutti suonano e vivono la musica come un aspetto
importante per la comunità.

Hai scritto un brano, “Follow your Order”, in cui si invita a fuggire
dai luoghi comuni, ma non solo, in cui si può restare intrappolati, è
quello che hai cercato di fare tu? Non solo musicalmente intendo.

Confermo. Diciamo che lotto da un po’ di anni per fuggire da questa
attitudine, soprattutto nella vita e quindi, di conseguenza, questo si
trasmette in quello che faccio in musica. Ho 28 anni, sono sposato da 7
e ad aprile sarò padre di 4 figli. Non dico altro.

Il fatto di “vivere il presente come un dono” è appunto il tuo credo,
quindi ti chiedo che sensazione ti ha dato la prima volta che avete
avuto il tuo disco fisicamente tra le mani? Sei soddisfatto del tuo
lavoro?

Emozione e soddisfazione! Vedere concretizzarsi il lavoro di anni in
un disco è qualcosa di impagabile. Soprattutto avendo vissuto tutto il
percorso come un dono: è stata una sensazione che mi ha riempito il
cuore! Sono molto soddisfatto del lavoro fatto con i Satellite e con
il mio produttore Fajo Girardi – One Black Sock – che si può definire
serenamente parte integrante dei THE LAST VINCI.

Nei pezzi del disco c’è come una parabola, si passa dal racconto delle
(tue) paure alla cover di “You make me brave” di Billy Bragg. I tuoi
testi nascono dalla vita quotidiana e in quanto tempo è stato scritto
il disco?
E a cosa è dovuta la scelta di questa cover particolare, se c’è una
ragione oltre al tuo gusto personale?

Il disco è stato scritto in 4 mesi, ma la lavorazione e la
produzione (contando uno stop di un anno visto il mio trasferimento)
è durata 2 anni tra Torino e Cork. La scelta di “You Make Me Brave” è
dovuta all’intensità del significato che porta in sè, pienamente in
linea con il concept del disco: “happiness is a choice”. Ho lavorato ad
un concerto di Billy Bragg allo Spazio211 l’anno prima di partire e mi
aveva colpito il suo modo di trasmettere un messaggio prima ancora di
far arrivare la musica. Tornato a casa, mi misi ad ascoltare la sua
discografia e trovai una performance solo voce di !You make me brave” e me
ne innamorai. Ho provato a reinterpretarla e sembrava scritta per me.

Quali sono le differenze più evidenti per un musicista tra il suonare
in Italia e all’estero?

Che quando vai ai concerti non incontri solo musicisti e che la gente
va ai concerti perché la musica è una figata assurda, a prescindere
da chi la fa.

E quando ti vedremo live in Italia?

Visto i magnifici feedback penso molto presto.Febbraio? Chi lo sa…

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Si è scomodato perfino sir Elton John, definendoli «la cosa più emozionante vista dal vivo dai tempi del concerto londinese di Jimi Hendrix al Marquee Club negli anni Sessanta». Si chiamano 2Cellos ovvero Stjepan Hauser e Luka Sulic, virtuosi del violoncello e vera sensation fra classica e rock, nata dal web ed esplosi a livello mondiale. Alzi la mano chi non ha visto il fantastico video qui sopra, ormai arrivato a 30 milioni di visualizzazioni, in cui suonano “Thunderstruck” in una versione, diciamo… d’epoca.

Ora sbarcano in Italia per una manciata di concerti in Italia. Partiranno l’11 dicembre a Padova al Gran Teatro Geox, il 12 a Roma all’Atlantico Live, il 13 a Bologna all’Estragon, il 14 a Milano al Fabrique e il 15 a Udine al Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Sono 10.000 i biglietti già venduti, sold out già in prevendita le date di Bologna e Udine e ancora poche le disponibilità per Padova, Roma e Milano. Un fenomeno mondiale, dunque, che merita di essere conosciuto da vicino. Ma chi sono davvero i 2Cellos? L’abbiamo chiesto a Stjepan Hauser: sentite cosa ci ha risposto.

Come vi siete avvicinati alla musica e perché avete scelto due strumenti classici come i violoncelli?
«Siamo stati attratti dalla musica fin dalla più giovane età. C’era qualcosa nei violoncelli che ci risuonava nella testa. E’ uno strumento veramente speciale, con tonalità e colori molto vinci alla voce umana».

A chi vi siete ispirati?
«Siamo stati ispirati semplicemente da tutta la musica e da chi aveva qualcosa da dire con il suo strumento. E’ molto difficile scegliere in da un mondo così eterogeneo di artisti»

Come vi siete conosciuti e da cosa è nata l’idea di formare il duo?
«Ci siamo incontrati tanto tempo fa, quando eravamo ancora studenti di violoncello. Entrambi volevamo fare qualcosa di molto diverso, perchè avevamo intuito che c’erano delle grandi potenzialità nel violoncello, ancora inesplorate. Noi stavamo suonando come animali rock, ma anche come musicisti classici. Così è stato facile creare la fusione».

Le cronache vi davano come rivali “musicalmente parlando”…
«Fino ad un certo punto è stato così. Poi abbiamo deciso di unire le forze e sembrerebbe che la decisione abbia regalato un effetto molto migliore».

La scelta dei brani da “riarrangiare” è condizionata dai vostri ascolti musicali?
«Il brano deve essere davvero toccante ed ispirarci in qualche modo. In pratica ci deve piacere e dobbiamo sentirlo nostro, per farci iniziare l’arrangiamento. Ovviamente deve calzare a pennello con i nostri violoncelli».

Il lavoro di arrangiamento è fatto esclusivamente da voi?
«Si è proprio così».

Che tipo di pubblico vi segue?
«Il nostro pubblico è il più vario al mondo. Abbiamo i giovanissimi, gli anziani e tutto ciò che sta in mezzo. Tutto questo perché il nostro approccio alla musica abbraccia tutti gli aspetti. Non vogliamo semplicemente attrarre gente che ascolta un solo genere musicale, così alla fine ci segue chi ama la classica, ma anche il rock o il pop. Alcuni dei nostri fan viaggiano per il mondo per vedere i nostri concerti. Tutto questo è davvero eccezionale».

Tra i vostri partner c’è anche Zucchero: ci sono altri artisti italiani con cui vorreste collaborare?
«Noi abbiamo già collaborato con i migliori: Zucchero e Andrea Bocelli. Tutti gli altri sono… morti (risata)».

E’ difficile essere accettati artisticamente dal pubblico inglese. Vi siete stupiti di essere stati invitati al concerto del giubileo a Buckingham Palace?
«E’ stato un grande onore e di sicuro l’invito in qualche modo ci ha sorpreso».

Quali sono i vostri progetti futuri?
«Vogliamo aumentare sempre di più il nostro successo, ovviamente anche in Italia»

Dopo l’esperienza di Orient Express, ci saranno altre vostre composizioni originali?
«Certamente, questo accadrà in futuro».

Intervista a cura di Vincenzo Nicolello

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Lodo Guenzi si racconta, tra "L'Italia peggiore", i concerti e la venerazione per Cechov.

Sono indubbiamente la band italiana del momento, quelli capaci di dividere il pubblico tra chi li odia e chi li apprezza, chi li vede come “la voce di una generazione” e chi li vede solo come dei presuntuosi.

Ma alla fine Lo Stato Sociale sono solo 5 amici che vanno in giro a fare quello che gli piace, come ci ha raccontato in quest’intervista Lodo Guenzi, voce della band, che vedremo in tour ancora per alcune date prima di nuovi misteriosi progetti per il 2015.

Ne “L’Italia peggiore” c’è un pezzo che si intitola “La musica non è una cosa seria”: dopo due dischi per voi lo sta diventando?

In realtà il pezzo voleva proprio celebrare il fatto che lo stava diventando, come hai colto: a me sembrava chiaro ma non lo era per tutti a quanto pare; insomma se da una parte ci sono i “professoroni” che vogliono farti credere che la musica sia una roba seria io volevo dire che la musica bisogna che rimanga un gioco almeno in parte, pur facendolo in modo professionale e serio. E’ un piacere fare fatica, sudare, fare interviste, fare promozione, fare 200 date quando le fai con gli amici e sai che stai facendo una cosa che ti piace sul serio. Anche se magari poi sei nervoso o ti girano le scatole, per la musica si va oltre a questo.

Vista questa riflessione mi viene da chiederti: come si fa ad andare sul palco a far ridere e divertire tutti anche nei giorni in cui magari avresti solo voglia di stare a casa perchè sei nervoso?

Per quanto mi riguarda nello stare su un palco c’è un processo di rielaborazione, la vita non rimane fuori, ma anzi sfrutti ciò che ti accade nella vita per rendere al meglio sul palco. Ad esempio per me la rabbia ha avuto un aspetto molto importante in alcuni live, tirando fuori un mio lato ironico e umoristico che altrimenti non avrei messo sul palco. Un regista russo dei primi del novecento, Mejerchol’d, le cui teorie sono alla base della recitazione biomeccanica, parla proprio di una traslazione tra il quotidiano e l’extraquotidiano: quando sali sul palco butti fuori in un secondo quello che hai preparato o che hai vissuto in precedenza, tutto sta nel riuscire a cambiare istantaneamente una volta che sei sopra il palco. Ad esempio l’anno scorso ho avuto la polmonite per un mese e mezzo durante il tour estivo, eppure salivo sul palco e facevo lo show come sempre, perchè riuscivo appunto a “cambiare” sul palco, come un vero e proprio attore.

Riguardo al vostro pubblico, una certa generazione vi ha molto responsabilizzato, citando i vostri pezzi, prendendoli quasi come inni di ciò che appunto vivono loro; questo vi pesa o non date importanza a come vengono letti i vostri brani?

Io non so se ci pesa, secondo me ci influenza: il tipo di spettacolo che facciamo noi, sul ciglio tra il rock ‘n’ roll, la cosa impegnata e il cabaret è data dal fatto di voler far passare delle parole, dei concetti in cui noi crediamo, ma senza avere il ruolo degli indottrinatori. Noi ci mettiamo lì e tra un momento di rock’n’roll e un momento in cui magari si parla della strage di Bologna facciamo un balletto, evitando così di apparire come dei Beppe Grillo del caso, dei santoni appunto. Un pezzo come “Mi sono rotto il cazzo” rischia, senza la giusta autoironia, di esser visto come un inno da capo-popolo, la nostra volontà è proprio quella di non cadere in questo ruolo, ironizzando e “smitizzando” certe parole. Cerchiamo di dire cose vere in modo leggero.

Non ti fa paura però il fatto che qualcuno possa strumentalizzare le parole che hai scritto leggendole fuori contesto?

Sì, chiaro e può succedere; per chi viene a vederci l’antidoto a questo pericolo siamo noi stessi, che appunto ironizziamo o facciamo i “pagliacci” sul palco. Poi per quanto riguarda la critica musicale che magari legge i nostri pezzi in un certo modo, non m’importa, è giusto che la critica ci sia e faccia quello che deve fare, ma quando non si riesce a cogliere lo spirito evidente con cui facciamo le cose o lo si fa per malizia o per incapacità e dunque non gli dò importanza. In questo Paese comunque c’è un problema nel percepire i diversi piani di lettura delle cose, bisogna sempre etichettare un qualcosa e comportarsi di conseguenza. Quando poi invece non si fa così e semplicemente si vivono le cose a livello empatico, ecco che va tutto molto meglio e si colgono i vari aspetti di una canzone, piuttosto che di uno spettacolo o un film o quant’altro.

Riguardo al discorso dei piani di lettura mi veniva in mente Foster Wallace che riusciva a unire vari registri letterari e vari piani del discorso paradossali, riuscendo a dare chiavi di lettura ironiche o surreali anche ad eventi di importanza mondiale o a cose serissime (come accade in “Considera l’Aragosta”) tutto nell’arco di poche righe, magari è quello che provate a fare voi nell’arco dello spettacolo. Mi chiedo quindi: c’è tra le tue fonti d’ispirazione?

Io non l’ho mai letto, ma per Bebo è un mito. Per quanto mi riguarda, senza andare a scomodare leggende della letteratura, un certo immaginario con cui siamo cresciuti è quello di Luttazzi, la Guzzanti, Paolo Rossi, per risalire al teatro di Gaber e Luporini: quella maniera di raccontare le cose intrattenendo, facendo ridere, ma gettando delle “esche” su argomenti importanti, che poi spetta a chi guarda approfondire. Poi dentro di me ci sono anche quegli autori un po’ più tragici e rabbiosi degli  anni ’90 che mi hanno certamente toccato, come Ravenhill ad esempio o Sarah Cain. Poi io sono un “adepto” di Anton Cechov e da autore di brani teatrali ti dico che certamente la sua arte ha influenzato il nostro spettacolo: se riuscissimo a mettere insieme un’oncia di quello che hanno fatto questi grandi saremmo già soddisfatti.

Quali sono i progetti futuri de Lo Stato Sociale? Magari proprio esplorare ancora di più una dimensione teatrale?

Noi andremo in giro ancora un po’ e poi succederanno alcune cose, alcune insospettabili; stiamo scrivendo delle cose e alcune diventeranno anche canzoni, ma siamo in un momento di passaggio e “L’Italia peggiore” mi sembra un disco di transizione, come si dice, anche se fino a poco fa non lo percepivo. Di certo stiamo cambiando, ma siamo sempre di più un gruppo, siamo sempre più uniti tra noi e tutte le nostre individualità sono libere di esprimersi. Succederanno cose diverse che riguarderanno diversi di noi.

Ultima domanda, visto che siete appunto un gruppo, com’è andare in giro in tour in così tanti?

Sì, noi siamo in 9 durante il tour e succedono sempre un sacco di cose, ci divertiamo e accadono un sacco di gaffes, una che mi viene in mente riguarda Robbo, il nostro tour manager e stage manager, che è di Reggio Emilia: quando andiamo a suonare lì vengono a vederci anche i suoi genitori, l’ultima volta mentre lo presentavo a Bebo è venuto in mente di aggiungere “che è di là che fa le canne”; Robbo giura di aver visto i suoi alzarsi e andarsene dalla sala in quel momento…e non c’erano posti a sedere!

Queste le ultime date de “L’Italia peggiore Tour” in calendario:

6 dicembre Firenze – Auditorium Flog
7 dicembre Santa Maria a Vico (CE) – Smav
12 dicembre Catania – Barbara Disco Lab
13 dicembre Lecce – Officine Cantelmo

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Il cantautore fidentino torna a suonare nei club per l'ultima parte del tour di "Almanacco del giorno prima", in cui la sua band sarà arricchita da un ensemble di fiati.

Giuseppe Peveri è ormai un cantautore affermato, partito da palcoscenici indie per approdare, con “Almanacco del giorno prima” a un tour nei teatri, in cui ha messo in scena un vero e proprio spettacolo; adesso, per l’ultima parte del tour di questo disco, denominata “Gran Band Epilogo Tour”, tornerà ad esibirsi nei club e la sua band sarà appunto arricchita da una formazione di fiati, con conseguenti riarrangiamenti ad hoc di brani vecchi e nuovi. Insomma, un’occasione da non perdere per ascoltare Dente in una versione ulteriormente rinnovata, prima che nel 2015 si ritiri a scrivere il nuovo album, come ha confermato lui stesso in questa intervista.

Ciao Giuseppe, la prima cosa che ti chiedo è se puoi già fare un bilancio di “Almanacco del giorno prima”, visto che è uscito ormai da qualche mese.

E’ ancora presto per fare un bilancio sul disco, magari lo farò più avanti, però posso dire che sono soddisfatto di questo lavoro, lo ero quando è uscito e lo sono ancora a distanza di mesi, inoltre mi ha permesso di fare un tour nei teatri, che era qualcosa che desideravo fare da tempo, mettendo su un vero e proprio spettacolo con tanto di scenografia.
In ogni caso non si è ancora concluso il ciclo di questo disco, essendo un “Almanacco” dura appunto un anno, dunque ora siamo all’attacco finale!

Nel tuo personale almanacco da quando è uscito il disco invece cosa metti? Com’è cambiata la tua vita in questo ultimo anno?

Non è cambiato assolutamente nulla. Lo so, è una delusione. Cerco solo, via via che porto in giro il disco, di aggiungere qualcosa in più, di fare qualche passo in più e migliorarmi.

Stai già pensando al prossimo passo, dunque? Magari già un prossimo disco?

Sì, sto ragionando sul da farsi, sto provinando un po’ di canzoni, sto pensando a progetti anche extra-musicali, ma ancora non c’è niente di certo, per cui non riesco a parlarne. Per la gente quando un disco esce è nuovo ma per me che l’ho fatto è già vecchio, ci sono dentro magari due anni di idee, per cui non so quando queste cose nuove vedranno la luce, magari tra un anno e mezzo o due.

Come nasce l’idea di quest’ultima parte di tour con formazione allargata? Cosa deve aspettarsi chi verrà a sentirti?

Questa ultima parte con una sezione di fiati è stata concepita sia per dare al pubblico qualcosa di nuovo, sia perchè noi avevamo voglia di suonare i brani in modo diverso: questo spettacolo nuovo è più lungo del mio solito, sono 24 pezzi, suonerò i brani che anche nei dischi avevano i fiati e che dal vivo non sono mai riuscito a fare nella loro veste canonica e altre canzoni magari che non suonavo da tempo, che abbiamo riarrangiato con l’aiuto di Enrico Gabrielli. Sono molto contento di questo live, credo sia uno dei più belli che ho mai fatto.

Qual è la dimensione che ti soddisfa di più, in cui ti senti più a tuo agio, quella dei club o quella dei teatri?

Non c’è una dimensione che prediligo, ciascuna ha i suoi pro e i suoi contro, in teatro magari si possono fare delle cose particolari, la gente è seduta, è più attenta, nel club invece se suoni un po’ di pezzi lenti di seguito la gente si distrae, chiacchiera, quindi bisogna avere più ritmo. Comunque non preferisco una o l’altra, mi piace poterle sperimentare entrambe.

Quanto è importante avere una band collaudata e di amici, con cui giri da così tanto tempo, per poter affrontare entrambe le dimensioni senza perdere in qualità?

Sicuramente è importante, soprattutto perchè sono amici e ci conosciamo da tanto tempo; questa band ha suonato nei miei ultimi 3 dischi e ha arrangiato con me alcuni pezzi. Oggi abbiamo aggiunto non solo i fiati, ma anche F., che è un ottimo cantautore oltre a far parte dei Ministri e ha seguito tutto il tour di “Almanacco del giorno prima”, dunque la band che c’è oggi è davvero ampia e mi permette di fare un concerto molto corposo a livello di suono.

Visto che hai nominato F., con lui avete in piedi il progetto dei Calamari (dove ci sono anche Federico Dragogna dei Ministri, Gianluca De Rubertis de Il Genio ed Enrico Gabrielli), magari per il 2015 avete in mente di registrare qualcosa o continuerete a fare esibizioni estemporanee come è stato fino ad oggi?

L’idea è che restino sempre cose estemporanee, anche perchè abbiamo tutti troppi impegni ed è difficile riuscire a trovarsi un giorno per registrare, eventualmente; è un progetto fatto per puro divertimento, in cui cerchiamo di riportare in auge il cabaret della Milano di qualche tempo fa, quando si suonava in osteria e si cantavano le canzoni intorno a un tavolo, tra amici.

Ultima domanda, quindi nel 2015 ti rintani a scrivere i brani che hai già in testa o ti vedremo comunque in giro?

Credo che mi rintanerò, cercherò di far diventare reali queste idee che ho in testa, non credo ci saranno delle uscite live.

Queste le ultime date del “Gran Band Epilogo Tour” di Dente:

29/11 Livorno “The Cage Theatre”
03/12 Parigi “La Dame de Canton”
06/12 Ravenna “Bronson”
07/12 Bologna “Locomotiv”
11/12 Milano “Magnolia”
12/12 Vigonovo (VE) “Studio 2”
13/12 Perugia “Urban Club”
19/12 Bari “Demodé”
20/12 Catania “MA”
21/12 Santa Maria a Vico (CE) “SMAV”