Ligabue ospite a sorpresa: ecco la lunga chiacchierata con i 500 fans...

Ligabue ospite a sorpresa: ecco la lunga chiacchierata con i 500 fans presenti

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Il Laboratorio di Resistenza Permanente della Fondazione Mirafiore è un luogo di convergenza tra appassionati di cultura e personaggi del mondo della politica, della musica, dell’editoria. Mai prima d’ora era stato organizzato un incontro segreto, ma nonostante tutto, l’appuntamento organizzato dal padrone di casa Oscar Farinetti è andato sold out in pochissime ore. La gente si era fidata della promessa del padrone di casa: «Sarà un personaggio importantissimo, non mancate».

Così è stato. Sabato scorso erano almeno 500 le persone assiepate in ogni singolo anfratto del locale, per scoprire che sarebbe stato Ligabue ad entrare nell’auditorium. Nessuna canzone in scaletta, ma tante parole e, soprattutto, una bellissima interazione con la gente, che si è sbizzarrita a rivolgere domande al cantautore, cogliendo al volo un’occasione più unica che rara. Così i 90 minuti dedicati al meeting sono filati via in un attimo, tra un bicchiere di Barolo e tanti aneddoti di vita vissuta, con la musica, il cinema e l’Emilia protagonisti assoluti di una serata memorabile. Ecco cosa ha raccontato il rocker di Correggio.

Luciano, tu hai iniziato facendo il dj in Radio Freccia e la tua storia è raccontata nel film omonimo. Com’era la musica a quei tempi e come è oggi?

«Credo che il film sia venuto bene proprio perché anche io ero parte di quella storia e quindi la conoscevo in prima persona. Quando a Parma aprì la prima radio privata, per noi si spalancò un mondo incantato e così decidemmo di provarci anche noi. Un ragazzo di Correggio costruì un trasmettitore e lo collegò all’antenna. Con due giradischi ed un microfono ci ritrovammo in condizione di dire la nostra, facendo ascoltare la musica che volevi a chissachì, o probabilmente a nessuno. Ma la cosa importante per noi era sapere che chiunque nell’arco di 30 o 40 chilometri era in grado di riceverti. Questo era motivo di grande esaltazione. Pensavo che con Internet si potesse nuovamente vivere questa cosa, ma non è stato così, o lo è stato solo in parte. Oggi la rete ti concede cose incredibili. In passato sarei impazzito a sapere che un giorno tutta la musica della storia sarebbe stata fruibile con un clic. Da ragazzino risparmiavo per tutta la settimana per comperarmi un disco, che poi avrei consumato sotto la puntina. Oggi, la musica la puoi avere gratis, sorbendoti uno spot pubblicitario, ma il risultato è devastante. I dischi non si ascoltano più: è uno zapping disastroso e superficiale, che non rende merito all’artista».

Pier Angelo Bertoli è stato il tuo pigmalione, cosa ti ricordi di lui?

«Dobbiamo fare un viaggio indietro nel tempo, quando 27 enne capii che con la musica avrei potuto fare qualcosa, ma non so come. Io vergognoso e timido, venni avvicinato da Claudio Maioli. Lui, un venditore della Coop, mi propose di collaborare. Io pensai: se vende i prodotti del supermercato saprà vendere anche le mie canzoni e così iniziammo l’avventura. Ci venne in mente che nella nostra zona viveva Pier Angelo Bertoli, ma non sapevamo come contattarlo. Lo cercammo sull’elenco telefonico e con enorme sorpresa lui ci rispose immediatamente. Claudio gli disse: c’è un tipo fenomenale a scrivere canzoni, lo vuoi ascoltare? Lui ci diede l’appuntamento per la sera stessa. Tutto questo per dire che Pier Angelo era disponibile e generoso. Non ci conosceva ma, ci accolse a braccia aperte. Quello fu il primo momento in cui capii che le mie canzoni potevano avere un futuro. Il suo produttore, divenne anche il nostro e di qui nacque la storia».

Il mondo sta volando verso un nuovo sistema sociale. Internet è un’invenzione seconda solo al fuoco, un mondo sconfinato che cambierà la nostra vita. Tu che sei passato dal mondo analogico a quello digitale, non hai paura di non essere vecchio per un mondo così veloce?

«Io sono giovanissimo, anche se c’è una cosa che mi fa sentire vecchio: la velocità. Internet è stato un acceleratore pazzesco, che da un lato ci ha migliorato la vita, ma dall’altra ci ha portato cambiamenti scarsamente metabolizzabili. La mia sensazione è quella che l’essere superveloci abbia un fio, quello di essere superficiali. Internet non fa sconti, bisogna vedere se l’uomo di domani avrà la profondità necessaria».

Per te che sei venuto dalla gavetta: è stato più difficile non demoralizzarsi davanti ad una platea vuota o non montarsi la testa quando i tuoi concerti vanno sold out nel giro di pochi minuti?

«E’ un confronto molto difficile, anche se ti posso dire che non mi sembrava difficile salire su un palco davanti a poche persone. Nella musica c’è il club dei 27, quel gruppo di artisti tra i quali Amy Whinehouse, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain, Jim Morrison, che a 27 anni sono morti. Bene io a 27 anni feci il mio primo concerto. Io fino ad allora avevo fatto qualunque mestiere e quindi il pensiero di esibirmi era bellissimo. Oggi le cose sono cambiate. Credo nella canzone popolare e da battistiano convinto quale sono, credo che il successo si ottenga quando un brano arriva alla gente. Se questo non avviene allora è il caso di preoccuparsi. Quando ti accorgi che la gente ti segue, allora ti senti centrato. Poi se ci aggiungiamo che io sono un tossicodipendente da palco, ti lascio immaginare quale sia la mia ansia di far arrivare la prossima primavera, quando inizierà il prossimo tour».

Se tu dovessi scegliere tra l’intrattenere un pubblico numeroso e compiacente nei tuoi confronti come questo auditorium, o se dovessi invece intrattenerlo con le tue canzoni, quale strada imboccheresti?

«Come dicevo sono un tossico del palco e meno male che me lo fanno fare. Quando miei dischi incominciarono ad essere venduti e il mio collaboratore e manager Marco Maioli, mi sfidò dicendomi: tu non avrai mai il coraggio di salire su un palco. Io accettai la sfida e insieme con un gruppo di musicisti improvvisati organizzai un concerto vicino a casa mia. Era il 1987, e dentro il circolo sociale di Correggio tenni la mia prima esibizione live davanti ad un centinaio di amici. Mi ricordo che quella sera per me si trasformò in una droga. Mi dissi che io non avrei voluto fare altro per tutta la mia vita. Di natura sono un timido e mai avrei immaginato di trovare tutta la mia dimensione naturale su un palco. Ancora oggi mi sento più a mio agio in uno stadio, piuttosto che fare quattro chiacchiere con alcune persone».

Non ho intenzione di sentirmi abusivo, non mi lascio minacciare dal futuro: è una poesia che hai scritto tanti anni fa. E’ la filosofia della tua vita?

«Il concetto di futuro, come il concetto di mondo e di realtà, siano proiezioni che ognuno fa di se stesso. Il futuro non esiste è un qualcosa che uno immagina. E’ una concezione individuale che io metto al pari delle impronte digitali e della voce. Il sapere apprezzare l’unicità che ci appartiene è irrancontabile, ma è l’unica possibilità di avvicinarci agli altri, per capire il motivo di certi comportamenti delle persone».

Luciano tu parli spesso di mondo e di futuro: ma c’è ancora spazio per il futuro e per questo mondo?

«Una volta il rock era una celebrazione della vita in senso positivo. I testi erano un non senso, ma non importava. Poi improvvisamente le cose sono cambiate e la musica ha iniziato a lanciare i messaggi. Oggi è ancora così, soprattutto in Italia. Convincersi che ormai è tutto perduto è un errore. Io non mi rassegno. Sperare può costare fatica, ma io voglio credere che il futuro non è scritto e rimboccarsi le maniche abbia ancora un senso».

Non è un caso che tu abbia scritto Sono sempre i sogni a dare forma al mondo, perché tu sei una persona che riesce a trovare il bello in mezzo a tante brutture di questo periodo. Come facciamo a riprenderci i sogni che qualcuno ci sta rubando?

«Lo si fa con molta semplicità. Bisogna ricordarsi che i sogni sono nostri. Vedo speso sul blog “Bar Mario” che qualcuno scrive: mi hanno rubato un sogno. Io dico che non è possibile, soprattutto se tu non glielo permetti. Certo tu prendi atto di tutte le nefandezze di questo mondo e ti rendi conto che si riducono le tue aspirazioni di un futuro migliore. Nessuno, però, ti può rubare la speranza, l’importante è ricordare il proprio obiettivo. Oggi l’informazione traccia un quadro sociale da paura, sottolineando soltanto le brutte notizie, con il chiaro scopo di attirare l’attenzione. Noi non viviamo solo di cronaca, il nostro giudizio non deve essere influenzato dai giornali, ma dalla nostra esperienza e dalla nostra capacità di produrre sogni. L’importante è che non ce lo impediamo».

Cosa pensi dell’Italia?

«Ho scritto una lettera d’amore all’Italia. In questo testo emerge tutta l’amarezza che provo per le condizioni disperate in cui versa. Roma è l’esempio eclatante: è il caos intorno ad una bellezza infinita. Amo a tal punto questo Paese, che spesso si creano delle lacerazioni interne. Io mi sono sempre imposto di non trasmettere odio nelle mie canzoni, ma oggi per la prima volta mi sento di scrivere la mia indignazione».

La tua carriera è un po’ come una missione?

«Direi di si. Quando vedo i benefici che porta a me e quelli che può portare a qualcun altro, allora penso di star svolgendo una missione. Dicendo questa cosa posso risultare un po’ fuori di testa, ma è così».

Ti senti più musicista o cantautore?

«Io mi sento un cantautore. Io sono nato nel periodo in cui i cantautori italiani stavano regalando il meglio di loro stessi, andando in testa a tutte le classifiche. Loro non cantavano, ma dicevano le loro cose cantando. Io sono nella stessa condizione. Quando mi esibisco mi preoccupo di dirti le cose che mi stanno a cuore».

C’è un aggettivo per la tua musica?

«Direi Italiana. Il rock spesso viene visto come un qualcosa di esotico, in realtà è patrimonio di tutti. Nelle tre canzoni in cui parlo di rock ’n roll, pronuncio quella parola in italiano, per denunciarne la provenienza. Qualcuno dice che io faccio pop, ma non mi preoccupo: l’importante è che i miei pezzi abbiano l’energia per arrivare al cuore della gente».

C’è un brano a cui ti senti più legato?

«No assolutamente. Diciamo che quando esce un album, questo contiene una selezione di brani, provenienti da una rosa amplissima. Già questa scelta mi fa soffrire, figurati se ce la faccio a sceglierne un solo pezzo. Ti posso dire quelle che io ritengo più utili. E allora i titoli sono Il giorno del dolore che uno ha; Quella che non sei; Niente Paura. Semplicemente perché sono tre brani che regalano coraggio e sostegno alla gente»

In futuro farai ancora il cantante, o magari tornerai a fare il regista?

«Io faccio soprattutto il cantante. Tutto ciò che ho fatto, anche in passato, viene dalla musica. Quando feci Radio Freccia, non ero mai stato su un set, a parte per i video clip, nei quali per altro ero dall’altra parte della telecamera. Io lavorai molto per portare a casa il film, ma su una cosa fui sempre convinto: il suono doveva emergere. Non sto parlando della colonna sonora intendiamoci, ma della voce degli interpreti, di cui ho curato anche l’intonazione delle battute. Sono ignorante nelle arti figurative e quindi devo sopperire con quello che mi è congegnale. Quindi che tu legga un mio libro o che veda un mio film, devi sempre concentrarti sul suono che riesce a regalare».

Quindi non farai più il cineasta?

«Il mio ultimo film risale a più di 10 anni fa. Da quel momento ho fatto tante cose, tra canzoni, romanzi e poesie. Fare film è una cosa complessa, molto lontana dallo scrivere testi o romanzi, dove sei tu da solo a comporre. E’ difficile trasferire ad un nutrito numero di persone il mio pensiero e la mia visione della scena. Ho fatto il regista soltanto perché avevo due storie importanti da raccontare, adesso che ho 54 anni, inizio a pensare che le cose che mi vengono concesse siano preziose e quindi prediligo fare musica. Difficilmente riesco a pensare ad un qualcosa di così importante da dire in un film, che non possa raccontare in una canzone. Quindi sono pessimista sul fatto di ritornare ancora a fare il regista, ma molto più ottimista nel dire che farò ancora il musicista, se mi sarà concesso».

Lo scorso anno Andrea Scanzi, nel presentare “Non è tempo per noi”, proprio da quella scrivania disse che tu eri un cantante non impegnato. Tu cosa dici?

«Francamente preferisco non replicare, nel senso che ognuno è libero di dire quello che vuole. Io credo di poter garantire un certo tipo d’impegno, se per altri è insufficiente non importa, rispetto la sua opinione».

Cosa pensi quando allo stadio dell’Inter mettono la tua canzone?

«Siccome non ho più 20 anni, il sentimento che provo è un qualcosa di simile all’erezione».

Articolo a cura di Vincenzo Nicolello

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