I-DAYS Festival 2016 – Giorno 1

I-DAYS Festival 2016 – Giorno 1

Ph Francesco Prandoni, 12° I-Days Festival, Monza 08/07/2016
Ph Francesco Prandoni, 12° I-Days Festival, Monza 08/07/2016
Ph Francesco Prandoni, 12° I-Days Festival, Monza 08/07/2016

E’ la prima delle tre serate di questo festival, l’I-DAYs, arrivato alla sua dodicesima edizione.
E’ un caldo venerdì di luglio e i treni, gli autobus e le tangenziali che circondano Monza cominciano ad affollarsi.
I primi arrivati nel grande spazio verde allestito all’interno dell’Autodromo di Monza possono godere delle ultime ore di sole con i primi artisti sulla line up: Michele Bravi, idolo dei teenagers italiani, e The Sherlocks, giovane gruppo indie-rock inglese, sul palco Ascari; sul mainstage invece la giovanissima cantante Jasmine Thompson apre le danze con i suoi successi pop.
Il cielo si tinge di rosa e sul palco arrivano i Bloc Party nella loro nuova formazione. Only He Can Heal Me, dal nuovo album, è il pezzo di apertura che fa avvicinare ed aggregare tutto il pubblico sotto il mainstage. Non tutti li conoscono, ma chi invece li ha scoperti fin dal loro acclamato debutto nel 2005 con Silent Alarm non può non riconoscere pezzi come Helicopter e Banquet, fin dalle prime note acclamati, cantati e saltati. Un nome, i Bloc Party, in giro sui principali palchi della scena rock-indie da più di 10 anni, eppure qualcosa non va: forse risente dei cambiamenti interni, forse i piccoli problemi tecnici o quella che sembra paura di tirar fuori la voce da parte di Kele Okereke, storico leader del gruppo, fanno sì che la performance non sia così potente ed efficace come ci si aspettava. E’ con un simpatico “arrivederci” che abbandonano il palco dopo l’inchino di gruppo.
Ma non c’è tempo di scoraggiarsi, anzi, con una breve corsetta si raggiunge il palco Ascari dove sta per esibirsi il giovane e talentuoso menestrello inglese Jake Bugg, che apre il set proprio con il pezzo di apertura, nonché titletrack, del suo ultimissimo album On My One. Inutile dire che gran parte del numeroso pubblico presente è lì solo per lui: eccolo sul palco, con pochi compagni di band (batteria e basso), vestito di nero, senza fronzoli, provvisto solo di chitarra e di una potentissima, particolare ed affascinante voce. Così come accadde al ventenne Bob Dylan di cinquant’anni fa, Jake Bugg conquista tutto il suo pubblico con quella semplicità disarmante, fatta solo di chitarra e parole, che può anche chiamarsi folk-rock. La sua evidente passione per i vecchi maestri che hanno fatto la storia del rock e per le sonorità country del Nordamerica sono però rivisitate dal suo fresco e coraggioso punto di vista inglese. Essì, perché esser diciottenni nel 2011, quando debuttò, in Inghilterra, significa esser cresciuti a pane e britpop. Quel che ne esce fuori è una miscela incandescente e imprevedibile: da pezzi salterini e ballerini come Taste It e Troble Town, che fanno impazzire la folla, si passa ai più romantici (You And Me e Love, Hope and Misery) a mani in aria, a quelli più suggestivi e cupi (Ballad Of Mr Jones, The Love We’re Hoping For) passando per i ritmi più sostenuti e potenti di Gimme The Love e Bitter Salt. A chiudere quest’ora di calda e ricca esibizione non poteva che essere Lightning Bolt, la quale, specialmente dal vivo, meglio racchiude lo spirito giovane e libero di questo ragazzo.
Sono le 22:45 spaccate, è ormai notte e le luci del palco grande, munito di consolle e megaschermo, sono accese per accogliere l’headliner della serata: Paul Kalkbrenner. Una folla sterminata occupa ogni centimetro dell’intero spazio del festival, trepidante ed emozionata, in attesa del suo idolo. I primi beat cominciano a diffondersi nell’aria, sottili e fluidi, e Paul, a quasi 20 anni di carriera, sa bene come plasmare la sua folla, riscaldandola pian piano, un passo dopo l’altro. I primi pezzi, come Battery Park e Cloud Rider, sono tratti dal suo ultimo album 7, ma come il suo fan ben conosce, nessun pezzo è uguale a sé stesso durante il live: un musicista di elettronica, come Kalkbrenner e i suoi colleghi berlinesi, prende le sue canzoni e le remixa dal vivo, donando a ogni live, così come in tutti gli altri generi musicali, nuove sfumature. Il pubblico è già carico e caldo quando, nella prima metà del concerto, comincia a risuonare la famosissima Sky and Sand. Un boato si alza dal terreno: diventata già un classico del suo genere, questa è la canzone simbolo di una nuova generazione, quella presente questa notte, che quando alza le mani al cielo il più delle volte lo fa brandendo uno smartphone e che grida “ti amo” al disk jockey, così come la precedente lo gridava ai musicisti rock. Immersi nei fumi, ipnotizzati dai giochi di luci e dalle immagini sul megaschermo, ci si lascia andare alle urla di Grace Slick della canzone Feed Your Head (contenente un remix vocale di White Rabbit dei Jefferson Airplane) acclamatissima dal pubblico. Da questo momento in poi Kalkbrenner alza il tiro, si balla sfrenatamente per un altra ora, il pubblico non vuole lasciarlo andare, fino a quando sulle note di un lungo remix di Aaron gli animi si calmano e la folla comincia a scemare.
Una parte del pubblico rimane per gli ultimi dj-set dislocati sui palchi minori, gli altri tornano a casa felici e contenti.

To be continued…

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