Recensioni concerti

I report dei più importanti concerti in Italia: band italiane e internazionali, rock, pop, elettronica, punk, alternative e molto altro altro ancora. Photogallery e recensioni, report e scalette del concerto, immagini, video e racconti di tutta la musica live in Italia.

Ci sono band che, non nascondiamolo, si aspettano più di altre, si amano più di altre, a cui si riescono a perdonare assenze di anni dopo pochissimi accordi. Ecco, i Teenage Fanclub sono certamente una di queste: erano 12 anni che non si esibivano in Italia, ma dopo due note appena di “Start again” (inizio del live, non a caso) sembrava che fossero sempre stati lì, che il palco del Teatro Antoniano di Bologna non aspettasse che loro. Norman Blake e compagni hanno dato un saggio di quello che significa essere icone pop, ma con un animo straordinariamente rock. Nonostante alcuni piccoli problemi audio, il live ha sviluppato una tale carica emotiva e sonora che tutto, veramente tutto, è parso semplicemente bellissimo.

La platea era in visibilio per la band e la band se ne è resa conto, regalando qualche grande classico (assolutamente da brividi “About you” e “Your love is the place”), unito a un disco clamoroso,  che classico è destinato a diventare, come l’ultimo loro lavoro, “Here”, la cui densità sonora e poetica è venuta fuori in modo ancora più prepotente nel live, dove brani come “Hold on” o “The darkest part of the night”, piuttosto che “I’m in love” non hanno sfigurato a confronto con un repertorio importante come quello dei Teenage Fanclub.

Come dicevo, la differenza la ha fatta anche il rapporto tra band e pubblico, un pubblico che non immaginava luoghi migliori in cui essere piuttosto che le proprie sedie in teatro, anzi si: essere in piedi sotto quel palco, in teatro! E infatti al momento di “The concept” e del lungo bis ecco alzarsi tutta la platea ed andare a ballare sotto le note dei cinque alfieri del pop di Glasgow.

Apoteosi finale su “Everything flows”. La storia del pop è qui. E chi vi ha assistito, adesso, ne fa in qualche modo parte. Lunga vita ai Teenage Fanclub, nella speranza di dover attendere molto meno di 12 anni per rivederli.

TEENAGE FANCLUB SETLIST at Teatro Antoniano (Bologna 19/02/2017)

Start again

Don’t look back

Hold on

I don’t want control of you

Thin air

Verisimilitude

It’s all in my mind

Going places

My uptight life

Ain’t that enough

The darkest part of the night

About you

I need direction

Dumb dumb dumb

Your love is the place

First sight

I’m in love

Starsign

The Concept

 

I was beautiful

He’d be a diamond

Sparky’s dream

Everything flows

Il mercoledì elettronico sotto il tendone del Magnolia si apre puntuale con il set di L I M. I presenti sono ancora pochi, chi ha pensato di arrivare giusto in tempo per il live principale, ha decisamente commesso un errore.
L I M è il progetto solista di Sofia Gallotti, altra metà del duo milanese Iori’s Eyes, e il suo EP di debutto Comet (uscito per La Tempesta International) è un piccolo gioiello. Un’elettronica colma di grazia, la sua, nella quale si mescolano intimità e freddezza, buio e luce.
Sul palco Sofia è una statuetta di porcellana o, se si preferisce, una creatura aliena. La sua voce fluida riempie l’aria e traccia il solco in cui vanno ad inserirsi suoni che oscillano, synth avvolgenti e beat suggestivi. Un’estetica sonora curata nei minimi dettagli che sul palco si anima, arricchita da una presenza discreta e allo steso tempo catalizzante.
Il live di L I M è breve ma intenso e spiana nella maniera migliore la strada a quello successivo che si inserisce in piena soluzione di continuità nel mood della serata.

William Doyle, meglio conosciuto come East India Youth, fa il suo ingresso in scena. Inglese, classe ’91, il ragazzo è un piccolo prodigio e lo si capisce vedendolo esibirsi. Outfit da cerimonia e basso in mano, a voler ben guardare potrebbe dare segni di schizofrenia e invece no perché sa unire anime diverse in maniera perfetta.
La sua è una musica contaminata, in cui generi differenti vengono manipolati con maestria. Dal synt-pop alla psichedelia, con ripetute incursioni che arrivano dritte dai gloriosi anni Ottanta e iniziano ad introdurre il cambio di atmosfera e far muovere i fianchi. Il set di Doyle ha di certo saputo accendere in chi non lo conosceva una certa curiosità e si è meritato una menzione speciale.

L’ora e giunta e SOHN è pronto a rapire la sala che nel frattempo si è riempita. Nel pubblico si sorgono volti noti di colleghi musicisti mentre i fan più accaniti zittiscono chi è ancora dedito al cazzeggio. SOHN rientra nella cerchia dei personaggi che ci si sceglie con cura: noto ma non troppo, di facile ascolto ma non solo, incasellabile ma non sempre.
Christopher Michael Taylor nasce a Londra e poi si sposta saggiamente nella decisamente meno musicalmente sovraffollata Vienna per studiarne la scena elettronica e mettere le radici del suo progetto musicale. Ora di base a Los Angeles, SOHN presenta il nuovo lavoro Rennen, uscito a gennaio per la 4AD a tre anni di distanza dell’osannato esordio Tremors.
Quello che offre sul palco è uno spettacolo vero e proprio in cui splendidi giochi di luce costituiscono il valore aggiunto senza il quale lo show non sarebbe lo stesso. Ciò che più colpisce è la perfezione tecnica: una voce impeccabile e un’eleganza totale (che va ben oltre lo stilosissimo cappello nero).
La scaletta mischia brani dei due lavori e mostra come l’evidente tocco pop riesca a non sfociare mai nel mainstream. Ci si muove e si balla ma l’effetto clubbing non arriva mai e il tipo di ascolto del pubblico rimane in qualche modo anche cerebrale.
Tra echi di trip hop e downtempo, il live scorre intenso e si passa da pezzi come The Wheel e Artifice all’incanto intimista di Signal e Tempest con totale nonchalance. Hard Liquor è la chiusura perfetta di un live che lascia ancora la voglia, e infatti si riprende dopo una standing ovation con il bis: Conrad è il finale definitivo. Una serata perfetta: tre artisti, tre facce dell’elettronica migliore, un concerto a cui ripensare.


SETLIST

Tempest

The Chase

Proof

Signal

Bloodflows

Dead Wrong

The Wheel

Artifice

Paralysed

Harbour

Falling

Lessons

Hard Liquor

 

Rennen

Tremors

Conrad

Ieri sera al Teatro Ariston di Sanremo è andata in scena la seconda serata del Festival di Sanremo, forte del grande successo riscosso la sera precedente dove 1 italiano su 2 ha scelto di dare di nuovo fiducia a Carlo Conti, alla sua terza conduzione della kermesse canora che ogni anno fa tanto discutere.

Abbiamo ripercorso per voi la serata di ieri, permettendoci di lasciare una votazione che dipende esclusivamente dal nostro gradimento personale:

Ad aprire la serata è stata questa volta la gara dei giovani: a superare la selezione e a classificarsi per la finale che andrà in scena venerdì sono stati Francesco Guasti e Leonardo Lamacchia, eliminando Marianne Mirage e Braschi, e le loro comunque apprezzatissime canzoni.

E cosi, dopo un’emozionante esibizione di Hiroki Hara, il mago giapponese che ha tenuto incollati alla tv grandi e piccini, e un simpatico siparietto di Maria De Filippi che distribuiva tra il parterre i portachiavi con la faccia di Carlo Conti che tanto hanno fatto sorridere in questi giorni,  ha ripreso il via la gara dei big.

La prima a scendere in campo è Bianca Atzei, con Ora Esisti Solo Tu. Il brano, energico e con una grande apertura sul ritornello rivela chiaramente l’autore del brano, Kekkò dei Modà, ricordando molto (forse troppo) una canzone dei Modà. Non male, ma da riascoltare. Voto 7

Subito dopo tocca a Marco Masini, con Spostato Di Un Secondo. Un brano molto toccante in cui Marco si chiede come sarebbe il mondo e la sua vita se potesse rivivere quel “secondo” in cui le cose sono cambiate per sempre, tanti anni prima. Un brano dal testo profondo che ha bisogno di essere riascoltato più volte per un miglior giudizio, ma nel complesso ci è piaciuto. Voto 7,5

Il terzo big in gara è una coppia, Nesli e Alice Paba, presentati da Francesco Totti. Do Retta A Te, è prima di tutto un brano che mescola due stili, quello rap di Nesli e quello cantautorale della Paba, ed è una canzone d’amore che parla di fiducia scritta da Nesli prima in forma poetica e poi trasformata in canzone, come è solito fare. Un brano che funziona, come la maggior parte dei duetti presentati sul palco dell’Ariston nella storia della kermesse canora. Voto 7,5

Subito dopo è stata la volta di un altro debutto, quello del vincitore di amici Sergio Sylvestre, che presenta la sua Con Te, un brano scritto da Giorgia, che parla della fine di un’amore. Un brano malinconico in cui a farla da padrona è la voce particolare di Sergio. Voto 7

Non più un debutto, ma è al suo quinto sanremo il big seguente: stiamo parlando di Gigi D’Alessio, che si presenta con il brano La Prima Stella. Il brano, scritto dallo stesso Gigi per musica e parole, è dedicata alla madre, scomparsa quando era un ragazzo. Un brano dolce ed emozionante, che parla si d’amore (tema principe di questo Festival), ma quello di un figlio verso la propria madre. Voto 8

Il sesto big in gara è un altro debutto sul palco dell’Ariston e altri non è che il vincitore di X Factor 2013, Michele Bravi. Il Diario Degli Errori è a detta di molti il brano con il titolo più interessante di questo Festival,  ed è stato scritto dal figlio di Mogol, in arte Cheope e parla della ricerca dell’amore giusto, delle scelte giuste, dopo tante sbagliate che si accumulano negli anni. Un testo interessante che però sembra andare poco d’accordo con la giovane età di Michele. Voto 7

Paola Turci, la settima big in gara, ha alle sue spalle invece ben sette partecipazioni (e una vittoria nelle nuove proposte) e si presenta con Fatti Bella Per Te. Sedici anni dopo l’ultima volta che ha calcato il palco dell’Ariston la Turci lo fa con un brano che ha dedicato a se stessa e alla forza che ha trovato in se stessa nei momenti di difficoltà. Bel brano, dal testo profondo e intenso, una musica energica che lo accompagna, quasi a dare ancora più coraggio alle parole. Sin dopo il primo ascolto rientra nei brani più belli di questo Festival. Voto 9

Fa il suo debutto tra i big invece Francesco Gabbani, che dopo la vittoria con Amen nelle nuove proposte lo scorso anno, si presenta con Occidentali’s Karma, una critica alla cultura occidentale, fatta a modo suo. Un testo che a primo ascolto sembra quasi sembra un gioco di parole, che vuole far riflettere sul nostro modo di vivere super frenetico che finisce col voler imitare quella tranquillità tipica delle culture orientali. Allegra, ritmata, con un significato profondo nascosto che va ricercato dietro alla gioia e al ritmo che trasmette di primo acchito. Sicuramente verrà molto trasmessa dalle radio. Colpo di classe il ballerino/scimmione apparso sul finale del brano. Voto 9

Segue Michele Zarrillo (alla sua 13esima partecipazione al Festival) che presenta invece Mani Nelle Mani, nove anni dopo la sua ultima partecipazione al Festival. Si parla anche qui d’amore, di quello degli inizi, quando tutto è più vero e magico; amore rappresentato dal gesto dello stringersi le mani, che diventa il simbolo principe dell’amore più puro e sincero. La ripetizione continua di “mani” da ritmo al brano. Brano forse un po’ antico, sia nel testo che nella musica, ma non è per forza una cosa negativa. La voce particolare di Zarrillo piace o non piace, a noi piace. Voto 8,5

La penultima cantante in gara è Chiara, la giovane al suo terzo Sanremo presenta il brano Nessun Posto E’ Casa Mia, un brano in cui si affronta la distanza, dai luoghi e dalle persone. Chiara ha dichiarato di essere cresciuta negli ultimi tempi, di essere cambiata e di essere più sicura di se, e in questo brano questa crescita si può percepire. Andamento un po’ più lento rispetto a quanto ci aveva sempre abituato; la sua bellissima voce è comunque un punto fermo. Voto 7,5

Chiudono la gara Raige e Giulia Luzi, la seconda coppia in gara in questo Festival di Sanremo, entrambi alla prima esperienza all’Aristonra. Il brano che presenta questa inedita coppia si intitola Togliamoci La Voglia ed è, oltre ad un brano che parla d’amore, anche un invito, un desiderio di tornare ad una via più vera, togliendosi appunto la voglia di vivere sempre in un mondo virtuale e falso. Un mix di voci inedito che ci sta, anche se non ci ha convinto del tutto. Voto 7

Anche questa sera una bella puntata, scandita da ospiti musicali come Robbie Williams, osannato dai presenti in sala (e siamo certi anche da quelli a casa!), Francesco Totti che ha lanciato super tele autografati qua e la per l’Ariston, Giorgia e il suo medley di grandi successi che hanno sicuramente fatto piacere ai grandi nostalgici. Un mix variegato di ospiti che hanno impreziosito, ciascuno a modo proprio, una serata musicale che con Carlo Conti (e quest’anno ancor di più con Maria De Filippi) ha il sapore di quotidiano.

E adesso che finalmente abbiamo potuto ascoltare tutti i 22 brani in gara è ora di iniziare a tirare le somme. Chi si merita davvero la vittoria di questa 67esima edizione del Festival? C’è qualcuno che ha spiccato su tutti? Sarà una giovane promessa o una vecchia gloria a poter gioire sabato sera davanti a tutta Italia? Noi un’idea ce la siamo fatta, ma per ora non vogliamo sbilanciarci troppo.

Intanto questa sera andrà in onda la terza puntata del Festival in cui si esibiranno prima di tutti gli altri 4 giovani delle nuove proposte, dopodiché i 16 big in gara che non sono stati inseriti nel girone eliminatorio presenteranno le loro cover di famosi brani che hanno fatto la storia della musica italiana. Nesli & Alice Paba, Ron, Clementino, Giusy Ferreri, Bianca Atzei e Raige & Giulia Luzi, sono invece i sei artisti che si sfideranno quindi questa sera (ovviamente sulle note del loro brano sanremese, e non con la cover che avevano preparato) per poter accedere alla fase finale del Festival, e due di loro abbandoneranno definitivamente la gara.

Quale è stata la vostra canzone preferita tra quelle presentate ieri sera? Votatela nel nostro sondaggio!

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SETLIST:
Send Them Off!
Laura Palmer
Warmth
Snakes
Flaws
Oblivion
Lethargy
Things We Lost in the Fire
The Draw
The Currents
The Anchor
Bad Blood
Four Walls (The Ballad of Perry Smith)
Blame
Of the Night
Fake It
Weight of Living, Pt. II
Glory
Good Grief

ENCORE:
Two Evils
Icarus
Pompeii

 

Nobraino live a La Salumeria della Musica 03/02/2017
Nobraino live a La Salumeria della Musica 03/02/2017
Nobraino live a La Salumeria della Musica 03/02/2017

Se conoscete i Nobraino ma non siete mai andati a un loro concerto, allora non li conoscete affatto.
La loro vera natura non può che essere celata dietro un disco, si può intuirla sì, ma bisogna vederli con i propri occhi per capire davvero di chi stiamo parlando: Lorenzo Kruger e compagni – Néstor Fabbri alla chitarra, Davide Barbatosta alla tromba, Bartok al basso e il Vix alla batteria – sono di quei personaggi che non si possono immaginare né imitare. Sono bravi, divertenti e divertiti, e assistere a un loro live è un vero spasso.
In occasione della presentazione di “3460608524” arriva il loro tre miliardi, quattrocentosessanta milioni e seicentoottomila, cinquecentoventiquattresimo tour.
Scherziamo: è così che annunciano il tour del loro quinto album, pubblicato a novembre 2016 ed intitolato con un numero di cellulare con il quale poter comunicare con loro. Il 3 febbraio 2017 viene presentato a Milano, alla Salumeria della musica, ed è subito sold out: la prima parte del live lo riproduce fedelmente, traccia per traccia, in modo maturo, riflessivo e composto, quasi a voler dire: “ehi! visto come siamo cresciuti? ora siamo gente seria!”. Ma non appena la presentazione del nuovo album termina qualcosa è già cambiato: un breve, intenso e frenetico stacco strumentale per permettere a Kruger il cambio d’abiti ed eccoli tornati quei mattacchioni di sempre. Si fa presto a cantare “lui era un camionista, lei una cameriera, l’altra una barista” che l’atmosfera di “L’ultimo dei Nobraino” viene messa in scena. Kruger comincia a prendere in giro il suo pubblico, come fa con il genere umano nelle sue canzoni: “siete rimasti affezionati a quelle vecchie canzonette perché siete degli analfabeti!“. Così con quell’aria emancipata e sbeffeggiante, ma piena di ironia, si muovono sul palco, saltano e ballano.  Lo show prende tutte le forme possibili, dal crowd surfing, alla passeggiata per il locale fino alle acrobazie su una scala con il tuffo finale sulla folla dall’ultimo gradino, sulle note di un’infuocante Bifolco. Non mancano canzoni dall’atmosfera più raccolta, come Film muto e altre degli album più datati “Disco d’oro” e “The Best Of“. Per concludere, un bel coro a cappella della canzone più amata dai romagnoli cantata a squarciagola con il pubblico.
Se l’unico modo di fare è fare sul serio, allora loro sono perfettamente seri nell’essere buffi e nel sapersi seriamente divertire in quello che fanno. Può sembrare un controsenso ma in realtà a volte questo è l’unico modo di dare un vero senso a ciò che si fa.

 


SETLIST:

La statua
Cambiata
Mike Tyson
Constatazione amorevole
Vertigine ft. Crista
Soqquadro
Il guinzaglio
Darty fuoco
Cerchi
Centesimo
Estate illusoria
Peraltro
Il tempio di Iside

strumentale – Misirlou

Bigamionista
Lo scrittore
Endorfine
Record del mondo
Tradimentunz
Film muto
Esca viva

strumentale

I signori della corte
Bifolco
Romagna mia

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Green Day

Spettacolare primo concerto dei Green Day in terra italica per questo 2017: la data di Torino del 10 gennaio è infatti la prima di quattro date previste nel nostro Paese, che sarà seguita da quella di questa sera a Firenze, del 13 gennaio a Bologna e del 14 gennaio a Milano.

Il concerto si apre con Know Your Enemy, l’energia aumenta e un fan riesce a salire sul palco: canta qualche parola, acchiappa qualche plettro e poi viene invitato dallo stesso Billie Joe a lanciarsi sul pubblico per un po’ di sano crowd surfing. Chissà se il buon Billie Joe Armstrong sapeva di stare contravvenendo alle regole dello show.

Già, perché fuori dal Pala Alpitour campeggiano in bella vista dei cartelli di divieto che invitano a non pogare e a non fare crowd surfing. Intendiamoci, non è che in molti li abbiano presi sul serio, ma sono comunque stati notati da diversi fan che hanno condiviso foto divertite e commenti sarcastici in rete.

vietato-pogare

Non è la prima volta che questi simpatici moniti compaiono fuori e dentro le venue dei concerti più impensabili (anni fa per esempio ci avevano provato con i Pearl Jam, qui il commento di uno dei presenti).

La scaletta si divide principalmente tra gli album American Idiot e Revolution Radio, ultimo lavoro della band, ma non dimentica i classici Dookie e Nimrod snocciolando alcuni brani che mandano a monte i buoni propositi dei pochi che avevano intenzione di rispettare il divieto di pogo.

Due gli encore: uno con American Idiot e Jesus Of Suburbia e uno, acustico, che mette insieme storia e presente della band, proponendo prima la nuova ballata Ordinary World e poi, in chiusura, l’immancabile Good Riddance.

Questa la scaletta completa del concerto:

Know Your Enemy
Bang Bang
Revolution Radio
Holiday
Letterbomb
Boulevard of Broken Dreams
Longview
Youngblood
Welcome to Paradise
Brain Stew
Jaded
(Eseguita per la prima volta live dal 2011)
Christie Road
Burnout
Scattered
Hitchin’ a Ride
Waiting
Are We the Waiting
St. Jimmy
Basket Case
She
King for a Day
Shout / (I Can’t Get No) Satisfaction / Hey Jude
Still Breathing
When I Come Around
Forever Now

Encore:
American Idiot
Jesus of Suburbia

Encore 2:
Ordinary World
Good Riddance (Time of Your Life)

Salmo, 15 dicembre 2016, ph Elena di Vincenzo

Salmo, 15 dicembre 2016, ph Elena di Vincenzo
Salmo, 15 dicembre 2016, ph Elena di Vincenzo

Il rapper e producer di origini sarde Maurizio Pisciottu, in arte Salmo, è diventato in pochi anni una delle figure più importanti ed eclettiche della scena italiana e il tour del suo quarto album pubblicato a febbraio 2016 “Hellvisback” è stata la riconferma del suo successo. Ancora alla fine di questo lungo tour la doppia data – 15 e 16 dicembre- al Fabrique di Milano, città di adozione, è sold out.

Il locale è enorme e pieno, il pubblico è per la maggior parte molto giovane, ma non mancano fan di tutte le età e tutti tipi: Salmo non è mainstream, è tutt’altro che commerciale, è sfacciato, crudo e blasfemo, eppure piace anche le signore (mamme?); è della “nuova scuola” ma piace anche e soprattutto a chi la nuova scena rap italiana fa storcere la bocca, e un motivo ci sarà.
Salmo è come la Madonna, se ci credi compare“. Atteso e chiamato a lungo, arriva finalmente in scena innalzando nettamente il livello della serata, che fino a quel momento era stata intrattenuta un po’ a fatica da altri giovani rappers.
Provocatore ed energico, porta sul palco non solo l’aria di casa nostrana che noi conosciamo bene, con canzoni come S.A.L.M.O. , Old Boy e Russell Crowe, dall’album Midnite del 2013, ma anche tutto l’immaginario a cui si è ispirato per il nuovo album: le lande desolate del Nordamerica, le losche gang da bar western e i tempi in cui germogliavano le basi della musica che tutti noi amiamo, il rock.
I riferimenti sono espliciti, le influenze ben chiare, ma quando queste si incontrano e si scontrano con il mondo musicale dell’artista, legato più all’hardcore, all’elettronica e alla drum&bass, diventano un’unica miscela incandescente che infuoca il palco e gli animi del pubblico: l’entrata in scena con le prime tre tracce che coincidono con quelle dell’album tagliano a fette l’atmosfera e a Daytona già si poga con foga sotto il palco, il pubblico impazza e accoglie con clamore e affetto i pezzi degli album precedenti.
Mentre canta si dimena con atteggiamento da spaccone, il nostro rapper; ma non appena si rivolge al suo pubblico per dare consigli si dimostra un giovane umile e anche molto premuroso: ad esempio, dopo l’ormai tradizionale wall of death in Hellvisback chiede ai ragazzi se ci sono feriti e distribuisce bottigliette d’acqua. “Salmo uno di noi“, “Rovazzi figlio di p*****a” grida la folla, che vuole ribadire il proprio appoggio all’unico artista che ai giorni d’oggi ha ancora lo sbattimento di andare controcorrente e di dire in faccia ai diretti interessati che certa musica fa c****e. Non mancano gli ospiti, che entrano in scena per le rispettive canzoni, e i selfie di fine concerto.
Insomma al ragazzo classe 1984 non si può chiedere di più, e forse un po’ anche per questo che nell’aria si respira la paura di trovarsi di fronte l’ennesimo canto del cigno. Naturalmente noi siamo qui a scongiurarlo.

 


 

SETLIST:
Mic Taser
Giuda
Io sono qui
Daytona
Russell Crowe
Old Boy
Bentley vs Cadillac
Il messia
ft. Victor Kwality
7 am
L’alba
Buon Natale
Venice Beach

Killer Game
Hellvisback
S.A.L.M.O.

ENCORE:
Don Medellin ft. Rose Villain
Title? ft. Axos e Nitro
1984
La festa è finita
Black Widow

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La confusione regna davanti al Fabrique, a pochi minuti dall’inizio della data milanese dei The Lumineers. Tra code chilometriche per il ritiro, casse chiuse e fan in cerca di biglietti, si avverte il clima da sold out. Dopo gli show che hanno portato la band nel nostro Paese nel periodo estivo,  Wesley Schultz e compagni, tornano ad esibirsi dal vivo con i brani del nuovo lavoro Cleopatra.

All’interno la temperatura è infernale ed è sovraffollata persino la tribuna stampa. In tutta questa agitazione, i membri della band statunitense fanno il loro ingresso sul palco con l’eleganza e lo stile che li contraddistingue, assieme ai musicisti aggiunti per i live. Si parte con la doppietta Sleep on The Floor e Ophelia, per arrivare quasi immediatamente alla hit Ho Hey che, neanche a dirlo, scalda la sala che in realtà era già dal primo minuto. Ed è su questo brano, al quale la band deve la totalità del suo successo fuori patria, che il frontman chiede al pubblico di fare l’ultimo video e poi riporre i cellulari in tasca per godersi il concerto.

Dal racconto in prospettiva femminile di Cleopatra, alla dedica alla donna che ha sposato (Dead Sea), la voce di Schultz è la costante che esprime tutta la cifra stilistica della band. Delicati, intensi, distaccati il giusto senza perdere in impatto emotivo.
Il polistrumentista Jeremiah Fraites e la violoncellista Neyla Pekarek, danno il loro contributo fondamentale nel creare un live imbastito con grazia, la stessa grazia con cui, alla fine di ogni canzone, Schultz si toglie il cappello per ringraziare il suo pubblico.
C’è spazio anche per l’omaggio al dio laico a cui tutte le band del genere guardano, ossia Bob Dylan, con una versione davvero notevole di  Subterranean Homesick Blues. Non mancano i momenti più tranquilli, durante i quali i più cadono nella tentazione di prendere di nuovo in mano lo smartphone per fare video o inviare spezzoni di registrazione a chi, purtroppo per lui, non è presente.
Darlene viene eseguita dal gruppo in versione acustica e senza microfoni per ricordare i tempi ormai lontanissimi in cui sostituta dei palchi giganti era la strada, con il busking che sembrava destinato a non evolvere mai.
Sulla coinvolgente Big Parade esplodono i coriandoli (e definitivamente l’entusiasmo) ma la serata non è del tutto finita. Si torna per il bis, con tanto di brano mai inciso (Long Way From Home), fino ad arrivare ai saluti. I musicisti si abbracciano e ringraziano tra di loro perché l’alchimia che li unisce è quella fondamentale e va celebrata. Da li poi si può ringraziare il pubblico che a sua volta ringrazia e si incammina senza smettere di saltellare.

SETLIST

Sleep On The Floor
Ophelia
Flowers In Your Hair
Ho Hey
Cleopatra
Cassy Girl
Dead Sea
Charlie Boy
Darlene
Subterranean Homesick Blues (Bob Dylan)
Slow It Down
Submarines
Gun Song
Angela
Big Parade
In The Light
My Eyes

Long way from home
Scotland
Stubborn love

La superluna del 14 Novembre ha illuminato magicamente la serata del ritorno in concerto dei White Lies  in Italia,  questa volta sul magnifico palco del Fabrique a Milano, e per chi non è stato presente raccontiamo a qualche giorno di distanza il Live report dell’evento .

Intanto cominciamo a dire che la band a supporto, The Ramona Flowers, ha aperto la serata con un ottima performance creando la giusta atmosfera per l’entrata in scena del terzetto di Londra quei White Lies che esordirono balzando al numero 1 delle calassifiche UK con il loro disco d’esordio To Loose my Life, che fece  il botto rendendoli da subito una delle band più promettenti e sorprendenti.

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La band si presenta come di consueto sul palco con l’aggiunta di un quarto elemento alle tastiere, con Harry McVeigh chitarra e voce solista, Charles Cave al basso e cori, nonchè autore anche di molti testi, e Jack Lawrence-Brown alla batteria,  mostrando sin da subito una grande capacità stilistica e tecnica in grado di catalizzare l’attenzione del pubblico già con il primo pezzo, Take It out on  me, nuovissimo singolo tratto dal recente lavoro Friends .

Non a caso la scaletta fa incetta di brani tratti dal sopracitato primo disco, ma consente anche di ripercorrere la loro giovane carriera, contenuta in 4 album prodotti in meno di 10 anni di attività; dopo There Goes our Love arriva subito il capolavoro To Loose my life che sintetizza alla perfezione l’anima musicale dei White Lies, fatta di moderne sonorità racchiuse in uno scrigno d’epoca eighties che illustri predecessori hanno disegnato per loro.

Come non pensare a Ian Mc Culloch, leader e cantante degli storici Echo & The Bunnymen, quando ascoltiamo Harry cantare Hold Back your love o Morning in LA o come non ritornare alle atmosfere sognanti dei Cure quando i White Lies intonano il loro primo singolo, Unfinished Business .

Il Basso di Charles, preciso e sicuro, e la batteria di Jack pulsano all’unisono in molti pezzi mentre la chitarra di Harry si destreggia senza mai andare oltre una certa soglia, come vuole il classico stile new wave, mentre le tastiere forniscono il lato sintetico che abbiamo da sempre apprezzato nei dischi dei White Lies.

Gemme oscure musicali brillano nella serata e così ascoltiamo Price of Love e Farewell to the Faiground  passando poi alle sfaccettature più solari di Getting Even e Don’t Want To Feel It All per raggiungere con Death l’ora quasi esatta di performance.

Aspettiamo qualche minuto per tre encore di grande effetto quali Big TV e Come on e per chiudere una stupenda Bigger Than Us.

È una festa di compleanno di tutto rispetto quella che Brian Molko e compagni hanno organizzato per il ventesimo concerto del tour che celebra i loro vent’anni di carriera. E se è il pubblico a cantare in coro “Happy Birthday” come nella più classica delle festicciole casalinghe sono invece i Placebo a fare a Milano e ai fan presenti il regalo più bello: live tiratissimo, Brian Molko e band in gran forma, scaletta che non dimentica nessuno dei grandi successi della band.

Molko in più di un’occasione aveva espresso quello che spesso è un sentimento comune per le band più longeve: una sorta di disamore nei confronti dei più grandi successi commerciali di Placebo. Ma in questo tour celebrativo, aveva assicurato il cantante, ci sarebbe stato spazio per tutti i loro cavalli di battaglia. E così è stato.

Il concerto si apre con i maxi schermi che trasmettono un omaggio a Leonard Cohen, recentemente scomparso. Dopo l’applauso che il pubblico gli dedica parte invece un video che celebra la storia della band con frammenti dei loro videoclip e riprese di backstage. Quando la band arriva sul palco e attacca con “Pure Morning” il pubblico esplode in un boato.

Molko si dismostra subito in ottima forma e non disdegna di prendersi delle pause tra una canzone e l’altra per parlare degli argomenti più diversi: dalla superluna di questi giorni alle catastrofi ambientali imminenti, fino al suo commento in merito al fatto che in molti, tra il pubblico, hanno il cellulare alzato.

“Ladies and gentlemen and everyone in between” dice rivolgendosi al pubblico “Molti di voi oggi hanno scelto di guardare il concerto attraverso una piccola gabbia: un piccolo schermo, che vi fornisce un simulacro inferiore del momento. E questa è una vostra scelta, non possiamo fermarvi. Fatelo pure: perdetevi tutto il concerto, filmatelo, portatevelo a casa, riguardatevelo e si sentirà e si vedrà di merda”.

Dopo l’invettiva e la presentazione della band, si ricomincia con “Too Many Friends“, seguita da una infilata di canzoni che scorre via veloce fino a “Without You I’m Nothing“, in cui sui maxi schermi compaiono immagini di David Bowie e di momenti insieme a Brian Molko. “Grazie David”, lo saluta Molko. Il pubblico tributa un grande, lungo applauso al Duca Bianco. È uno dei momenti più intensi della serata. Figlio di un banchiere, cresciuto a Lussemburgo in importanti scuole private, Molko ha più volte dichiarato il suo debito con Bowie: “Mi ha salvato la vita, avrei fatto qualsiasi cosa per non finire dietro una scrivania in banca”.

Dopo “Lady Of The Flowers” Brian dichiara apertamente la fine di quella che lui definisce “The melancholic section of our show”. E infatti si riprende con un picco di adrenalina che prevede in veloce successione “For What It’s Worth“, “Slave To The Wage“, “Special K“, “Song To Say Goodbye” e “The Bitter End“.

Il rito dei bis prevede “Teenage Angst“, “Nancy Boy” e “Infra-Red” e si chiude con “Runnin Up That Hill“. Sugli schermi, un pacchetto di sigarette con il volto di Donald Trump e la scritta  “Nuoce gravemente a te e a chi ti sta intorno”.

Festa di compleanno particolarmente riuscita per i Placebo, che hanno entusiasmato il loro pubbico e sono stati ricambiati da un grande calore, in un continuo scambio di energia.

Queste le foto del concerto, scattate da Francesca Di Vaio:

Questa la setlist del concerto:

Pure Morning
Loud Like Love
Jesus’ Son
Soulmates
Special Needs
Lazarus
Too Many Friends
Twenty Years
I Know
Devil in the Details
Space Monkey
Exit Wounds
Protect Me from What I Want
Without You I’m Nothing
36 Degrees
Lady of the Flowers
For What It’s Worth
Slave to the Wage
Special K
Song to Say Goodbye
The Bitter End

BIS

Teenage Angst
Nancy Boy
Infra-red

Running Up That Hill (Kate Bush)

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I Wilco decidono di aprire il loro concerto milanese sul palco del Fabrique, omaggiando le ceneri delle bandiere americane, viste le circostanze (Ashes of American Flags). Cappello da cowboy, maglietta a righe, giubbino di jeans e pancia, Jeff Tweedy come sempre ha l’aria dell’americano medio, uno di quelli che alle recenti elezioni ha combinato il pasticciaccio che condizionerà i destini del mondo intero nei prossimi quattro anni. E invece è, al contrario, un essere tutt’altro che ordinario, e chi riempie la sala stasera lo sa bene e non a caso urla il suo nome già dall’inizio.

Ho sempre avuto paura di essere un normale ragazzo americano, canta in Normal American Kids, e invece è riuscito a benissimo a sfuggire a tale maledizione. Un’ apertura scarna e acustica, come lo è l’ultimo straordinario lavoro Schmilco, appena sporcata dai suoni elettrici dei fedeli compagni di band.
Inutile piangersi addosso (Cry All Day) in un momento come questo, Jeff è qui per rassicurarci con tutto il fare bonario di cui è capace. Dice che andrà tutto bene, We’re gonna be alright, che siamo in lutto ma assieme avremo la forza per elaborarlo perché siamo e saremo sempre più di loro, e così la bellezza, che non scomparirà.
Lui lo dice e tu stavolta ci credi sul serio. Quello che sorprende sempre, nonostante l’abitudine, è l’estrema naturalezza con cui in più di vent’anni, i cinque americani  riescono a fare tutto quello che fanno, sia su disco che dal vivo.
Il palco è un bosco e i Wilco suonano tra le fronde per due ore, con una scaletta che è un’ulteriore dimostrazione di intelligenza. Ai momenti più intimi e puliti (Misunderstood, Someone to Lose) si alternano le sperimentazioni di brani quali Art of AlmostI Am Trying to Break Your Heart, che permettono anche al batterista Glenn Kotche e al formidabile Nels Cline di mostrare tutta la loro maestria.
La verità è che, anche se poteva sembrare che con il precedente lavoro Star Wars la band di Chicago avesse avuto una piccola battuta d’arresto, non è mai stato così e i ragazzacci sono più forti di prima.
Dopo i classici Via Chicago e Impossible Germany arriva il momento Jesus, etc. a far sognare la sala e a ricordare che nel nostro mondo esistono brutture come Trump ma anche cose belle e perfette come quel disco che è Yankee Hotel Foxtrot.
Si torna sull’attualità, Tweedy spiega che ora più che mai in America la gente si guarda in faccia chiedendosi che fare e questo in qualche modo è un dato positivo. Poi si riprende a suonare ancora per un po’, con tanto di doppio bis e la platea che non smette di partecipare (canticchiando Spiders). Cline passa alla slide, si torna ai ritmi soft e si conclude al meglio con un’ultima ondata di calore.
I Wilco sono più che una certezza, e se Jeff Tweedy era qui con l’intento di rassicurarci ci è riuscito eccome. Si torna a casa carichi di energia positiva. Certi che, per quando le cose siano difficili, fino a che esiste chi come loro prosegue dritto su un cammino fatto di coerenza e bellezza e ha per fortuna deciso di condividerlo, saremo in qualche modo salvi.

SETLIST
Ashes of American Flags
Normal American Kids
If I Ever Was A Child
Cry All Day
I Am Trying to Break Your Heart
Art of Almost
Pickled Ginger
Misunderstood
Someone to Lose
Via Chicago
Reservations
Impossible Germany
Jesus, etc.
Locator
We Aren’t The World
Box Full Of Letters
Heavy Metal Drummer
I’m The Man Who Loves You
Hummingbird
The Late Greats

Random Name Generator
Spiders (Kidsmoke)

California Stars
War on War
Shot In The Arm

 

Se qualcuno al Montreux Jazz Festival lo ha definito “The new master of slide guitar“ significa certamente che Jack Broadbent (noi ve ne avevamo già parlato qui) sa il fatto suo con una chitarra in mano. Qualcun altro, invece, lo ha definito “La migliore notizia per il blues da qualche tempo a questa parte” (“The Blues has not seen such Good News in quite some time”).
Indiscutibilmente bello e bravo, molto blues, questo ragazzo americano è diventato famoso perché suonava come busker nel quartiere a luci rosse di Amsterdam. Un passante lo ha filmato e ha messo il video su YouTube e…boom.
 

 
Ma non c’è solo questo a giocare a suo favore: c’è il carisma, una splendida voce, una grande simpatia e il fatto che sul palco sembra divertirsi davvero, così come si diverte il pubblico, tra un pezzo originale e classici blues.

Ma facciamo un passo indietro. La serata al Legend Club di Milano comincia alle 21.30 in modo piutto sto surreale: sul palco c’è One Horse Band.
 

 
Dopo di lui è la volta di Diego “DeadMan”: cappellino con la scritta “Redneck” e Vecchia Romagna nel bicchiere, tira fuori qualche buon pezzo blues e folk.

L’atmosfera però cambia quando alle 11.00 sale sul palco Jack Broadbent. Pantalone nero, stivale nero a punta, camicia bianca con bretelle e giacca, sale sul palco accompagnato da due bottiglie di birra e un pacchetto di sigarette, che prontamente offre alle prime file. Chiede se tutti hanno un drink a portata di mano e fa un brindisi. Poi si siede, sistema la chitarra sulle ginocchia, tira fuori dalla tasca l’inseparabile fiaschetta di metallo e attacca con “Making My Way”, seguita da una cover di Hendrix, “The Wind Cries Mary”. Suona con una frattura del metacarpo alla mano destra, che si è procurato durante le sue tappe del tour in Giappone, ma dal pubblico qualcuno gli chiede “Quante mani hai?”. Lui risponde divertito.

Alterna brani del suo album “Along the Trail of Tears” (se amate il blues e non lo avete ancora fatto andate a sentirlo subito) a cover come “Leavin’ Blues” di Leadbelly. Tra una canzone e l’altra parla di tutto: di Trump (“Fuck. Shit.” è il suo commento su questo argomento a inizio show), di suo padre, a cui dedica una canzone, della sua ragazza (“E’ anche la mia tour manager, without her, I’m fucked. I mean…I’m fucked anyway but..” scherza mentre la indica in fondo alla sala). Su “Hit the road Jack” chiede al pubblico di cantare, a dir la verità con risultati prevedibilmente discutibili, soprattutto in confronto a quando alla voce torna ad esserci lui. Lo show scorre veloce, Jack sostituisce la sua birra con un whisky che gli arriva mentre sta suonando e che lo fa visibilmente felice.
Prima di andar via spiega a tutti ironicamente: “Voi lo sapete e io lo so: ora annuncerò che questa è l’ultima canzone, uscirò e poi rientrerò per fare un altro paio di canzoni”.
 
Riattacca con “Holdin'” la track di apertura del suo album. Fatevi un’idea qui di cosa possa essere stato:
 

 
Chiude con una cover: Black Magic Woman.
 
Questa la setlist del concerto:
Making My Way (album Along the Trail of Tears)
The Wind Cries Mary (cover)
Don’t Be Lonesome (album Along the Trail of Tears)
She said (album Portrait)
Willin’ (cover)
Leavin’ Blues (cover)
Gone Gone Gone (album Portrait)
Hit the road Jack (cover)
Holdin’ (album Along the Trail of Tears)
Black Magic Woman (cover)