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Laura Antonioli

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Mi piace la musica, anche quella brutta. Ogni tanto ne scrivo.

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Dopo una lunga estate che l’ha visto esibirsi nei più importanti festival d’Italia, da vero protagonista, Cosmo torna con una nuova serie di date, stavolta nei club.

L’Ultima Festa è un disco da ballare, con la sua attitudine pop unita ai suoni e le strutture tipiche della musica elettronica da club. Per questo Cosmo (Marco Jacopo Bianchi) e la sua etichetta, la 42 Records, hanno deciso di dare una nuova veste alla seconda parte della stagione. Uno show rinnovato nella forma e nella sostanza, pensato per dare pieno risalto all’anima del suo ultimo disco.

Dopo un set che comprendeva solo i brani de L’ultima festa, Cosmo ha deciso di riprendere le canzoni di Disordine, il suo apprezzatissimo disco di esordio, e riproporle in versione inedita: un live a tutti gli effetti ma pensato come fosse un dj set. Si parte da Milano per proseguire con una quindicina di date in tutta la Penisola.

20 ottobre 2016   Milano Polisuona (ingresso gratuito)
21 ottobre 2016   Santa Maria a Vico (CE) SMAV
22 ottobre 2016   Roma Outdoor Festival / Italianism / L-Ektrica 
28 ottobre 2016   Roncade (TV) New Age
29 ottobre 2016   Brescia Latteria Molloy
11 novembre 2016   Sant’Egidio alla Vibrata (TE) Deja Vu 
12 novembre 2016   Molfetta (BA) Eremo 
18 novembre 2016   Carpi (MO) Kalinka
19 novembre 2016   Livorno The Cage Theatre
25 novembre 2016   Firenze Auditorium Flog
26 novembre 2016   Perugia Urban
01 dicembre 2016   Rovereto (TN) Smart Lab 
15 dicembre 2016   Torino Hiroshima Mon Amour (in collaborazione con TOdays)
16 dicembre 2016   Trieste Teatro Miela
17 dicembre 2016   Bologna Locomotiv

 

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Il nuovo progetto di Federico Albanese (già metà del duo La Blanche Alchimie assieme a Jessica Einaudi), The Blue Hour, è stato pubblicato lo scorso 15 gennaio per la Neue Meister, la nuova sub-label di Berlin Classics dedita alla musica contemporanea. 13 brani registrati con un registratore a nastro degli anni Sessanta, strumento che gli ha permesso di cogliere tutte le sfumature nascoste e le imperfezioni, i rumori del pianoforte e dello spazio circostante, facendoli poi incontrare e fondere con archi, elettronica e strumenti da lui stesso costruiti.

Ora il talento della neo-classica minimalista, italiano di nascita ma berlinese d’adozione, lo presenta con un tour che tocca anche alcune città italiane.  Albanese riesce a fondere con naturalezza estrema il suono del pianoforte con l’elettronica, creando spazi evocativi di raffinata bellezza, trasportando con grazia l’ascoltatore in uno spazio altro tra sogno e malinconia, sull’onda di Max Richter e Olafur Arnalds.

Ecco le date italiane:

Giovedì 29 settembre – Locomotiv Club – Bologna

Venerdì 30 settembre – Ribbon Club -Terracina (LT)

Sabato 1 ottobre – Arci Bellezza – Milano

Domenica 2 ottore – Teatro Supera -Nichelino (TO)

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Kristian Matsson, il cantautore tascabile più alto sulla terra, ripassa dall’Italia, più precisamente sul palco del Fabrique di Milano, dopo l’improvviso scambio di location (precedentemente era stato annunciato al teatro Franco Parenti). Per aprire la serata, sceglie il connazionale e amico fraterno The Tarantula Waltz, all’anagrafe Markus Svensson. Un songwriter tra i tanti, si esibisce sul palco chitarra e voce e nonostante sia capace, fa pensare a quanto la svolta elettrica di Dylan a Newport cinquant’anni fa sia stata sacrosanta per salvarci dalla noia mortale del folk nudo e crudo, monotono e trascurabile.

La storia cambia quando sulla scena compare lui, Kristian Matsson, per tutti The Tallest Man on Heart da quando, nel 2006 pubblica il primo ep omonimo.
È piccolo e a fargli compagnia c’è solo il suo strumento, ma riempie perfettamente la scena con la sua sola presenza e di spazio libero non ne resta. Le suggestioni, i ritmi e le parole sono fragili eppure riesce ad essere incredibilmente maestoso. Apre lo show con East Virginia, traditional cantato anche da Joan Baez, tanto per mettere in chiaro le cose: anima, talento, folk e nient’altro.
Una passione feticista per le chitarre che cambia di canzone in canzone, plettri lanciati in aria che piovono come fossero coriandoli. Fields of Our Home dall’ultimo lavoro Dark Bird Is Home a cui seguono due brani dell’apprezzatissimo There’s No Leaving Now, datato 2012: suona sulle punte, si muove con la stessa grazia che pervade le sue canzoni. La voce è potentissima e a tratti nasale, proprio come quella di Dylan, giusto perché sfuggire al suo fantasma quando si decide di essere un folk-singer di questo tipo è praticamente impossibile.
La sala non è completa ma il pubblico è di affezionati veri e il calore si sente anche se lo stato è piuttosto contemplativo perché, davvero, non c’è bisogno di fare nulla. Solo guardarlo e lasciarsi trasportare dalla bellezza dell’esecuzione di pezzi quali I Won’t Be Found e Little Nowere Towns. L’età del pubblico è varia e può succedere che un ottantenne chieda timidamente agli uomini della security di poter oltrepassare un attimo le transenne per scattare qualche fotografia da tenere come ricordo.
Il menestrello intanto sorride e ringrazia a più riprese, poi racconta un aneddoto su un gruppo di fans che tempo fa ha invaso la sua proprietà nelle campagne svedesi. I’m a friendly guy but just don’t go to my house, o prima almeno avvertitemi, scherza per introdurre il recente singolo Rivers, che di paesaggi bucolici narra.
Dice di non aver scelto con cura per il pubblico milanese le sue chitarre più silenziose, sapendolo atto all’ascolto, poi si siede alla tastiera. Lo spettacolo prosegue con un’atmosfera sempre più raccolta che conduce alla parte finale del set che è un alternarsi di ballate soft (Time Of The Blue, There’s no Leaving Now) ed episodi coinvolgenti che chiamano il battito collettivo di mani (King of Spain). Fino all’ultimo dà tutto quello che ha, saltella si siede e si rialza, gioca con gli strumenti.
Si chiude con Dark Bird Is Home: I thought that this would last for a million years/ But now I need to go / Oh, fuck. Finale teatrale e perfetto, non fosse che il pubblico lo acclama e lui torna in scena per altri due brani. Si dice stanco della propria tristezza e per Il saluto definitivo sceglie quella di qualcun altro (quella scritta da Jackson Browne e cantata per prima da Nico, nello specifico) per una versione splendida di These Days, con tanto di chitarra small size color oro. La serata è finita e il piccolo principe del folk ha davvero lasciato il segno.

 

SETLIST:

East Virginia 

Fields of Our Home

1904

Criminals

The Wild Hunt

Darkness Of The Dream

I Won’t Be Found

The Gardener

Little Nowhere Towns

Love Is All

Rivers

The Sparrow & The Medicine

On Every Page

Time Of The Blue

There’s No Leaving Now

King of Spain

Dark is Bird Home

Sagres

These Days (Jackson Browne)


[Report: Laura Antonioli   –   Photo: Francesca Di Vaio]

 

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Seconda e ultima serata di un UNALTROFESTIVAL. Stavolta all’ingresso la coda è infinita, dando un’occhiata alle t-shirt si direbbe siano tutti qui per Editors e Ministri, e infatti il pezzo forte della serata sono proprio loro.

Ma è giusto e bello dare spazio a un po’ di musica altra, magari nuova e meno mainstream. Apre le danze Birthh, all’anagrafe Alice Bisi, 19 anni appena. Nonostante la giovane età, ha calcato diversi palchi europei e qui si è già vista in occasione del Mi Ami. Ha più di una cosa in comune con i Daughter, visti ieri sera sul palco qui a fianco, ossia intimismo e modalità di scrittura. A tratti anche la sua voce è simile a quella della cantante della band inglese anche se su un altro livello. A fare la differenza è la natura molto più elettronica delle sue composizioni (facile pensare a The xx e simili). L’esibizione è regolare e senza grandi slanci ; accompagnata dai suoi musicisti, presenta i brani del primo disco Born In The Woods, uscito a febbraio.

Sul main stage arriva la prima dei tre artisti internazionali della serata : Flo Morrisey. La cosa che colpisce vedendola entrare in scena con il suo abito verde è senza dubbio la bellezza angelica. Classe 1994, nata a Londra, inizia a comporre da adolescente e, dopo alcuni singoli, dà alle stampe nel 2015 il primo album Tomorrow Will Be Beautiful. Un modern folk il suo, caratterizzato da una grazia davvero notevole. Pizzica le corde della sua chitarra, canta d’amore e di sé con voce da usignolo: gorgheggi, yodeling e falsetto, chiudendo gli occhi si potrebbe anche pensare di essere finiti al Laurel Canyon negli anni ’70. Invece siamo a Segrate ma guarda caso il sole sta tramontando, l’atmosfera c’è. Show me, Pages of Gold e una cover del brano dei Tuxedomoon, In a Manner of speaking. Set breve ma intenso, voce e chitarra ma non serve altro, verrebbe da dire.

Birra alla mano, ci si sposta spinti da curiosità e si trova la sorpresa: Fil Bo Riva. Praticamente uno sconosciuto, ma vedendolo salire sul palco non si può non essere colti da epifania. Nato a Roma, vive a Berlino da anni e di anni ne ha solo 23. È uscito ad agosto il videoclip di Like Eye Did, ad anticipare la pubblicazione del suo ep di debutto If You Are Right, It’s Alright, che ascolteremo fra una ventina di giorni. Songwriter talentuoso, dotato di un timbro vocale straordinario che da solo basterebbe a garantire intensità e bellezza. Sul palco sono in due, belli e vestiti uguali, l’equipaggiamento è scarno (dichiarano di non avere un soldo): chitarra acustica, elettrica, bass drum, tamburello mezza luna. Suonano bene, benissimo una musica che si colloca a metà tra il folk e il soul, che è si malinconica ma anche estremamente dinamica. All’inizio il pubblico è scarso ma presto inizia ad avvicinarsi in massa, attirato dalla sua voce potente e che non merita paragoni scontati. Un’artista da non perdere di vista, senza ombra di dubbio.

Dici Magnolia, dici Ministri. E infatti eccoli tornare qualche mese dopo il set speciale in occasione del Mi Ami per celebrare il compleanno del loro primissimo album I soldi sono finiti. Stasera a compiere gli anni è Federico Dragogna (chitarra e penna), e Davide Autelitano (basso e voce), Michele Esposito (batteria) e Marco Ulcigrai (chitarra aggiunta) sono come sempre con lui. C’è qualcosa di strano, di diverso dal solito, chi li segue da anni non può non averlo notato. L’istinto animale che li anima dal vivo non manca, sia chiaro, eppure il live è sottotono. Parlano poco anzi per niente se non per introdurre Idioti (unico altro brano in scaletta da Cultura Generale), dedicata a chi non è riuscito a stare zitto, soprattutto sul web, in giorni drammatici come quelli del sisma che ha colpito il Paese. Cronometrare la polvere, Comunque, Spingere, Non mi conviene puntare in alto, i fan ovviamente rispondono a squarciagola perché il voler bene non si perde nei dettagli e non analizza al microscopio le mancanze. Forse i quattro sono stanchi, d’altronde sono in tour da quasi un anno e non si sono mai fermati, sarebbe comprensibile. Nel pubblico spunta Fil Bo riva che ovviamente non li conosce e sembra un po’ perplesso. C’è anche una giovane famiglia, padre madre e due figli piccoli, che canta ogni canzone. Vedere una bambina gridare parole parole pesanti come quelle di Tempi bui fa effetto (chissà se mamma gliele avrà spiegate senza renderla triste). Sicuramente rende bene l’idea di ciò che la musica dei Ministri rappresenta in una realtà come la nostra. Canzoni viscerali che servono a ricordare ciò che dovremmo essere anche se facciamo sempre più fatica. Non a caso si chiude con Abituarsi alla fine; speriamo solo non stiano faticando troppo anche loro a continuare a crederci, sarebbe un peccato perderli.

Ultimo atto di questa due giorni sono i britannici Editors. Quando si parla di loro le motivazioni per pagare il biglietto sono diverse e sempre valide. C’è chi vive un amore platonico non corrisposto per Tom Smith, chi è affezionato alla perfezione rock dei primi lavori, chi ha apprezzato il marcato ritorno ai suoni New Wave degli ultimi dischi (dal 2013 con lo strabiliante In This Light and On This Evening il solco tracciato era quello). Quella degli Editors è una band che da quindici anni ormai sa cambiare pelle ma dal vivo, come sempre, offre il meglio di sè. Si inizia con No Harm e la voce di Tom Smith, di bianco vestito, che squarcia il buio e le atmosfere cupe. Poi le più datate Smokers Outside The Ospital Dors e Rancig Rats, il pubblico canta, Smith e il bassista Russell Leetch, pollici in alto, approvano a più riprese. L’energia e il linguaggio del corpo del frontman sono ormai celebri e come sempre coinvolgenti. È un continuo alternarsi di atmosfere e stati d’animo: dal nero claustrofobico di Eat Raw Meat = Blood Drool alle aperture di A Ton of Love, all’esultanza da stadio per Papillon. Un’ora e mezza in cui nessun membro della band si risparmia, dando tutto ciò che può per ricambiare l’entusiasmo. Si chiude con Marching Orders (dall’ultimo LP In Dream) che parte piano per arrivare all’esplosione definitiva: otto lunghi minuti adatti per salutarsi come si deve, dandosi appuntamento alla prossima.

Per chi ancora non ha sonno, si continua con l’aftershow di Hunter/Game E Nowhere Music. Ancora una volta UNALTROFESTIVAL è stato bello, appuntamento all’anno prossimo.

[Report: Laura Antonioli  –  Foto: Francesca Di Vaio]

UNALTROFESTIVAL, la due giorni di musica organizzata da Comcerto, giunge quest’anno alla quarta edizione e regala, sempre nella cornice verde dell’idroscalo, una programmazione ricca più che mai.

I cancelli aprono presto e la gente inizia ad arrivare subito. I palchi sono due, ed è sul più piccolo che puntuali iniziano ad esibirsi i Sunday Morning, band romagnola con una storia comune ai tanti che spesso cercano di vivere di musica ma alle volte faticano. Iniziano a suonare una decina d’anni fa, poi si fermano, poi si ritrovano e fanno uscire un secondo disco che stasera presentano, dal titolo Instant Lovers. Il classic rock come riferimento ma una storia che matura nella provincia italiana, la musica dei Sunday Morning è forse più ibrida di quanto loro stessi pensino. Sul palco hanno una buona energia, il pubblico non li conosce ma sembra apprezzare.
Non c’è tempo nemmeno per un drink, cambio di palco, altra band. Il nome Landlord dirà qualcosa agli appassionati del talent X Factor dato che il gruppo ha preso parte all’ultima edizione del programma. La visibilità offerta dall’esperienza televisiva ha portato alla pubblicazione loro ep di debutto Aside (INRI). Ringraziano e si dicono emozionati per l’opportunità, è la prima volta volta che presentano il nuovo singolo live. Cantano in inglese, la loro è un’elettronica di classe che alterna episodi pop (Get By) a momenti più raffinati (Venice). Sono giovani, con poca esperienza alle spalle ma senza dubbio capaci e interessanti.

Ci si sposta di nuovo per i The Strumbellas, band canadese con radici country ma un piede ben piantato nel pop. Nati sotto un etichetta indipendente con la quale pubblicano il primo disco My Father and the Hunter (2012), oggi sono qui per presentare Hope, uscito da qualche mese.
Formazione classica con tutto l’indispensabile (acustica, elettrica, basso, batteria, tastiere, violino quando serve) sono bravi ma ascoltandoli in radio verrebbe da pensare a una carenza di personalità che rischi di farli annegare nell’oceano delle band simil-folk che da anni spuntano come funghi. E invece no: Simon Ward, chitarra e voce, ha energia da vendere, canta e balla a piedi nudi, intrattiene il pubblico. Il simpatico nerd Dave alle tastiere, azzarda qualche parola di italiano, Isabel Ritchie suona al violino e balla in maniera scomposta ma contagiosa. I fans sono numerosi ed entusiasti. Un pezzo dopo l’altro We Don’t Know, Wars, Young & Wild e l’allegria contagia anche i più scettici. Dopo aver mostrato il doppio disco di platino, la chiusura con la hit Spirits fa cantare davvero tutti.

Ed ecco arrivato il momento del primo dei due headliner della serata: Edward Sharpe & The Magnetic Zeros. Il carrozzone hippie capitanato di Alex Ebert fa il suo ingresso sul palco. Una band che è più simile a una comune, in cui chi vuole va e poi torna (stasera sul palco sono in otto ) che vive la musica come comunione e creazione. Unaltrofestival non è Monterey, verrebbe da dire, e in più il nuovo disco PersonA è un lavoro molto diverso rispetto ai precedenti. Ma con Alex Ebert non si sa mai, e infatti del nuovo disco neanche l’ombra. La scaletta non c’è, le canzoni vengono proposte dal pubblico, l’anarchia regna sovrana.
Ebert passa quasi tutto il tempo a girovagare, canta in piedi sulle transenne, racconta e chiede gli vengano raccontate storie. 40 Day Dream per iniziare, poi Mayla e Truth e i fans sono in delirio. La band segue le improvvisazioni del suo frontman che non ha davvero freni: voce magica, presenza scenica, energia che regala al pubblico e il pubblico restituisce quadruplicata. Una ragazza nelle prime file ha avuto la splendida idea di portare con sè una sparabollle ed è tutto ancora più bello. A Man On Fire, insomma, come da titolo. C’è spazio anche per qualche riflessione sui massimi sistemi everything dies, don’t you think? (la bottiglia di vino rosso appoggiata sul pianoforte aiuta). Up From Below e Janglin’ e l’estasi è definitiva. Ebert parte e scappa, fa abbassare tutti giù per terra e canta con loro. Ed ecco arrivato il momento della sempre invocata Home. Gli Edward Sharpe & The Magnetic Zeros sono sono una band come le altre ma una vera e propria banda e, con trombe e tromboni, garantiscono una festa di qualità.

L’ultimo artista della serata impone un cambio d’atmosfera repentino: Daughter, il trio londinese capitanato dalla bellissima Elena Tonra. La cifra stilistica della band ormai inconfondibile per i fan e non solo: delicatezza, atmosfere rarefatte in cui a risaltare sono è una voce incantevole. Un set perfetto, equilibrato e coinvolgente. Tra il pubblico c’è chi ipotizza una natura angelica della leader, « altrimenti non si spiega », dicono. C’è modo di ascoltare i brani più acustici del primo sorprendente lavoro If You Leave (Human, Shallows, Smother) assieme a quelli il nuovo LP Not to Disappear, uscito a gennaio per la 4AD, decisamente più elettrico e con qualche episodio inaspettato. Una specie di strana quiete pervade i presenti: l’atmosfera è compatta e malinconica. La timidezza di Elena Tonra che riesce a malapena a sussurrare impercettibili “thank you so much” fa sorridere tutti, il chitarrista Igor Haefeli interviene in suo soccorso. Si passa alla lentezza esasperata con liriche strazianti del primo singolo Numbers, all’incredibile ultimo singolo No Care. Più parlata che cantata, col suo ritmo sincopato toglie il respiro e mostra la cantante  da un’altro punto di vista : la dea algida si lascia andare alla passione si sporca di rabbia. Ma ricomporsi è un attimo ed ecco arrivare Youth (chi non era qui per questo?) We are the reckless / We are the wild youth / Chasing visions of our futures. Nient’altro da aggiungere, tutti a casa con gli occhi lucidi e il cuore contento.

E stasera tutti di nuovo in pista con Editors e Ministri (ma anche Flo Bo Riva, Birthh e Flo Morrisey)

[Report: Laura Antonioli   –   Foto. Francesca Di Vaio]

 

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L’ultima volta che si era vista su un palco italiano, Chan Marshall era diversa: capelli biondo platino, diventati cortissimi dopo la dolorosa fine dell’ennesima storia d’amore, viso gonfio e occhi spenti, una band alle sue spalle per presentare il lavoro allora in uscita, Sun. Tre anni dopo, l’artista di Atlanta torna ad esibirsi nel nostro Paese, e il contesto è diverso, visto che si presenta in modalità solo e senza album da promuovere.
Prima di lei tocca al live del folk-man di Pittsburgh William Fitzsimmons che, accompagnato dal violino e dalla voce celestiale di Abby Gundersen, regala momenti di vera intensità: suono pulito, esecuzione impeccabile, testi sentimentali ma mai banali. Il ragazzo ha talento, si sa, ed è anche capace di scherzare: “Mi chiamo William Fitzsimmons e faccio musica heavy-metal. No, scherzo, le mie canzoni sono fottutamente tristi”.

Poco dopo, il palco gigantesco è tutto di Cat Power. Cambiata ma sempre bellissima, i capelli sono di nuovo lunghi, come tanto tempo fa. La prima parte dello show vede Chan sola con la sua chitarra elettrica. Senza una scaletta precisa ha la totale libertà di pescare i brani che più le va di condividere con in pubblico che affolla il giardino adiacente la splendida Villa Arconati, resistendo al freddo e alle zanzare. Apre la bocca e inizia a cantare Old Detroit, ed è subito chiaro che qualcosa di magico sta per accadere. Chan Marshall è la sua stessa voce, e il pubblico, in un religioso silenzio, a questa voce rimane appeso. La tormentata inquietudine esistenziale che da sempre la accompagna e che spesso ha dato vita a live improbabili, nevrotici, sabotati ora dovrebbe essersi attenuata anche per via dei cambiamenti nella sua vita personale (è diventata mamma da poco più di un anno). Eppure in parte è ancora li, intrappolata in quella voce perfetta che sembra avere vita propria, fuori dal tempo e dallo spazio. A Hate segue una nervosa e allo stesso tempo delicatissima Great Expectations, ed è tempo di passare al pianoforte. Qualche colpo di tosse, un sorso di tè caldo, Chan dice che l’Italia le è mancata, qualcuno risponde che lei è mancata a noi, ed è vero. Fool, Maybe Not, 3, 6, 9 che, spogliata dalla veste elettrica con le quali era stata incisa diventa una ballata quasi difficile da riconoscere. La parte al piano prosegue, nel silenzio assoluto disturbato soltanto dai suoni della natura circostante. Il rumore dei grilli con il vento che smuove gli alberi fa pensare a Speaking For Trees, (il cd/dvd realizzato nel 2004 che la vedeva suonare da sola in una foresta della Greene County). Cat Power è sempre stata un’artista libera, anche troppo e le difficoltà nel gestire la sua stessa libertà le ha sempre manifestate in maniera estremamente sincera. Anche stasera, sul palco, è fin troppo onesta. Interrompe l’esecuzione di un brano dopo l’altro solo per tossire, quando arrivano gli applausi borbotta in continuazione “sorry” e si rivolge ai tecnici del suono più volte. Qualcosa la tormenta, eppure sembra davvero tutto perfetto. Let me go, Hit The Road Jack e la sempre attesa The Greatest concludono il set al piano. Di nuovo alla chitarra, ci si avvia verso la fine del concerto, pare. Say, Naked If I Want To, l’ipnotica Werewolf, Cat come sempre alterna i suoi stessi brani ai classici del blues e alle cover già incise (in The Covers Record, il suo quinto disco, datato 2000). Chiede di nuovo scusa, vuole l’intervento del responsabile di palco, dice di “non voler mettere nessuno nei guai”. Pare evidente che il tormento è ancora tutto dov’è sempre stato. Al pubblico ne sfugge il motivo, ma a tutti è chiaro che a questo punto ci sia bisogno di un abbraccio. E allora in piedi, le poltrone non servono, si cerca di recuperare la distanza chilometrica che separa da Chan. L’abbraccio è reciproco, un applauso infinito accompagna la sua uscita dal palco e, senza interrompersi, il rientro che la vede sedersi di nuovo al pianoforte. Altri due brani e il concerto termina, stavolta davvero, con Colors & The Kids. E soprattutto con la promessa di rincontrarsi ancora, magari con un nuovo lavoro in uscita, sperando che il tempo che ci separa passi in fretta.

Come ogni anno la bella cornice del cortile del Castello Estense ospita la rassegna del Ferrara Sotto Le Stelle, giunta ormai alla sua XXI edizione. Anche stavolta i nomi in cartellone sono tanti e tutti interessanti (passate le serate con Caribou e Glen Hansard, ancora da vedere Kurt Vile e Wilco, Last Shadow Puppets e Mogwai). Tra il palco sul quale gli artisti di stasera stanno per esibirsi e le transenne che limitano lo spazio dei fotografi e il confine per il pubblico, la distanza è notevole. Potrebbe sembrare un dettaglio inutile ma di fatto non lo è. Troppa distanza, fisica e non. Se n’è accorto Cosmo (Marco Jacopo Bianchi, già membro dei Drink To Me) che, arrivato sul palco per la sua Ultima festa, si è dovuto accontentare di un party a metà. I brani dell’ultimo lavoro hanno scaldato un bel gruppo di affezionati, troppo pochi per garantire l’atmosfera carica e scintillante che i suoi set di solito sanno regalare. Cosmo ci mette entusiasmo e bravura ma l’impressione è che al pubblico interessi più l’attesa dello show principale in sé rispetto a quello che sta succedendo sul palco. Peccato, davvero, perché è evidente in questo disco, come già lo era in Disordine (2013) che abbia sempre più cose da dire (o da fare se si preferisce) e nonostante scherzi sul fatto che in fondo si limita a schiacciare dei pulsanti, rimane una delle poche figure realmente interessanti in circolazione. Si chiude con la title track L’ultima festa, tra salti e battiti di mani, schiacciato il bottone, tutto si spegne e si è pronti per andare oltre. Inutile mentire, la gente che affolla il cortile è qui per un solo motivo: Niccolò Contessa.
E allora eccolo, puntualissimo, accompagnato dagli altri membri della band (Valerio Bulla al basso, Simone Ciarocchi alla batteria, Andrea Suriani alle tastiere) salire sul palco. Questo nostro grande amore deve ancora iniziare ma il karaoke è già partito e, sull’onda di un entusiasmo che pare incontenibile continua in un crescendo inarrestabile (anche perché la scaletta regala subito l’hype di Wes Anderson). Inaspettato, arriva l’intoppo, la tastiera non funziona, il navigato Contessa non si perde d’animo e ripiega su Hipsteria e Le coppie facendo tutti, se possibile, anche più contenti. Intoppo superato, la parte intima può arrivare: infondo l’anima di Aurora è quella e Niccolò pare sentirla particolarmente sua. Il pubblico si esalta e urla anche su pezzi come Una cosa stupida e Il posto più freddo, dimostrando di non essere completamente maturo né troppo razionale, e ci mancherebbe. In fondo quello che I Cani hanno saputo fare con i loro tre dischi è questo: coinvolgere, includere includendosi, osservare – descrivere -descriversi, ed è per questo che contenersi quando li si ha davanti risulta obbiettivamente difficile. Nel finale della bellissima Calabi-Yau la voce di Contessa si graffia leggermente ed è più che mai intensa, forse anche per via dell’introduzione al brano in cui invita tutti a partecipare all’Ancora Festival che si terrà domenica 3 luglio a Bologna, in memoria di Enrico Fontanelli, Offlaga Disco Pax e produttore del secondo lavoro della band, Glamour, scomparso nel 2014.
E proprio da Glamour arriva il brano sempre atteso, la canzone d’amore più bella e meno scontata che l’indie italiano intero ci abbia regalato finora: Vera Nabokov e qui si che il cortile estense può esplodere davvero.
Il concerto è ben lontano dalla fine e proprio da adesso in poi, l’intelligenza musicale di Contessa si esprime al meglio. Post Punk, FBYC, Non finirà: un’infilata di brani scelti con criterio e soprattutto eseguiti in modo da sembrare quasi un unico lunghissimo episodio, un monologo elettronico che è l’emblema di ciò che questa band-non-band (definizione che oramai non calza proprio più ) è in questo momento. Ed è con Finirà che tutto questo si fa tangibile: voce e tastiera, occhi chiusi, mani nelle mani ogni tanto, sullo schermo un buco nero che tutto inghiotte: il nuovo Contessa ha scelto di confrontarsi con il mistero di ciò che ci circonda per rubare quelle atmosfere spaziali che tradotte in suono, diventano la musica che gli riescono meglio.
Prima di iniziare Perdona e dimentica (brano che non si sentiva da un po’) si butta in un “fa stu tu pa come tutte le altre” ed è vero. Lui (come noi) lo sa e lo ammette a riprova del fatto che il suo progetto è sempre stato preciso e lucidissimo, nemmeno per un istante affidato al caso.
Si può concludere con il saltellare collettivo di Velleità? Volendo si potrebbe ma i duri e puri si ribellano: i concerti de I Cani vanno chiusi con Lexotan e allora che Lexotan sia. Adesso sì che sì può finire. Resta il sospetto che l’affetto oramai sia diventato davvero troppo e a tratti difficile da gestire. Contessa è un essere spietatamente analitico e di sicuro lo sa. Probabilmente avrebbe preferito avere qualche momento di respiro, in cui potersi esibire davvero magari senza essere sopraffatto dallo spirito collettivo che lui stesso ha contribuito a creare, ma tant’è. I live della band rimangono sempre momenti di autentica e preziosa partecipazione e a questi livelli, non se ne vedeva da un po’.

SETLIST COSMO:

Cazzate

Le voci

Impossibile

Dicembre

L’altro mondo

Un lunedì di festa

SETLIST I CANI:

Questo nostro grande amore

Protobodhisattva

Wes Anderson

Hipsteria

Le coppie

Non c’è niente di twee

Una cosa stupida

Calabi-Yau

Aurora

Il posto più freddo

Vera Nabokov

Post Punk

FBYC (Sfortuna)

Non finirà

Finirà

Sparire

Corso Trieste

Perdona e dimentica

Velleità

Lexotan

 

 

Già all’ingresso del Serraglio, il colpo d’occhio è notevole, c’è tanta, tantissima gente. Avvicinando la lente d’ingrandimento, si vede un po’ di tutto, il pubblico che ti aspetti e quello che ti sorprende. Ci sono i ventenni dark dalla testa ai piedi con la loro t-shirt di Unknown Pleasures comprata in qualche negozietto di Londra o Berlino, ci sono trentenni un po’ più convenzionali, anche loro con la stessa maglietta presa però da H&M e parecchi cinquantenni in giacca e cravatta che sembrano arrivati direttamente da una giornata d’ufficio durata più del previsto. È bello pensare che nel concerto che sta per iniziare ognuno potrà trovare proprio quello che è venuto con l’idea di portarsi a casa.
Peter Hook sale sul palco puntualissimo, alle 21:20 per la prima parte della serata, quella che prevede una manciata di brani dei New Order. Set breve ma intenso finalizzato al riscaldamento preliminare degli animi, che vede il primo apice già dopo una ventina di minuti, con l’arrivo di Ceremony, che sembra essere il primo vero momento di emozione pura per la sala (che intanto non smette di riempirsi) e per lui stesso in primis.
Tutti nel cortile esterno per una breve pausa sigaretta e i primi scambi di opinioni e poi di nuovo dentro perché la vera festa sta per iniziare: A Joy Division Celebration. Qualcuno bisbiglia qualcosa, pare che Hook abbia tirato una riga con il pennarello sul primo brano in scaletta (Atmosphere), ma in fondo il padrone della festa è lui e con la musica che gli appartiene può fare come gli pare. La tentazione di chiamare i brani preferiti come con un juke box dal vivo è forte, soprattutto per la parte più giovane del pubblico, e del tutto comprensibile. Ma Peter Hook & The Light è un’altra cosa, ha un carattere ben definito: quello di Hook stesso che, tra una posa da bullo e l’altra, suona e canta (con voce non potentissima, va detto) i brani della storia musicale di cui è stato parte, senza cadere nel sentimentalismo e senza perdersi in chiacchiere. Il live procede, pulito, forse anche troppo un po’ uguale a se stesso, ma il pubblico pare apprezzare. Isolation, Colony, Heart and Soul, Twenty Four hours e Decades, e la bellezza senza tempo di Closer vola via in un soffio. C’è spazio anche per un piccolo bisticcio con un ragazzo del pubblico che, a quanto pare, parla un po’ troppo, ma c’è sempre qualcuno a cui sfugge la sacralità intrinseca che ogni celebrazione porta con sé.
Altra pausa veloce, secondo scambio di opinioni, tra qualche superlativo e qualche sbuffo, e si riparte con Unknown Pleasures. Se tutte quelle magliette, mosse dal vibrare delle corde di basso, avessero potuto prendere vita, l’avrebbero fatto, forse con Disorder, sicuramente con Shadowplay e She’s Lost Control causando qualche piccola scossa, mettendo a rischio la stabilità dell’edificio.
Forse se in sala non ci fosse stato l’equivalente di 130 gradi fahrenheit (che gli hanno causato un piccolo momento di annebbiamento poi subito rientrato) Peter Hook e la sua band avrebbero continuato a suonare per altre due ore e mezza. O forse no, in fondo dopo una Love Will Tear Us Apart riportata in vita e la sua maglietta zuppa di sudore concessa in regalo, cosa si sarebbe potuto chiedere d’altro?
Pragmatico, professionale, appassionato (a suo modo) Peter Hook ha indossato i panni da maestro di cerimonia com’era giusto che fosse. Inutile dire che l’altro nome (si, quel nome che inizia con la I e finisce con an) è volato nell’aria più volte, ma ognuna delle persone che l’ha invocato l’ha fatto conscia del fatto che forse, al sogno irrealizzabile, è meglio preferire la realtà così com’è.

SETLIST:

  1. In a Lonely Place
  2. ICB
  3. Lonesome Tonight
  4. The Him
  5. Way of Life
  6. Sunrise
  7. Ceremony
  8. Digital
  9. Atrocity Exhibition
  10. Isolation
  11. Passover
  12. Colony
  13. A Means to An End
  14. Heart & Soul
  15. Twenty Four Hours
  16. The Eternal
  17. Decades
  18. Disorder
  19. Day of The Lords
  20. Candidate
  21. Insigth
  22. New Dawn Fades
  23. She’s Lost Control
  24. Shadowplay
  25. Wilderness
  26. Interzone
  27. I Remember Nothing
  28. Dead Souls
  29. Transmission
  30. Love Will Tear us Apart

Report Laura Antonioli, Foto Francesca Di Vaio

In una nuvola di fumo blu a tratti fluorescente, i Marta Sui Tubi, tornati definitivamente alla formazione originaria in trio (senza il violoncello di Mattia Boschi e il piano di Paolo Pischedda) fanno il loro ingresso sul palco del Serraglio. Il loro ultimo lavoro LoStileOstile, sesto album in studio, auto prodotto e finanziato tramite il crowdfunding con musicraiser è uscito da meno di un mese ma il pubblico pare averlo già immagazzinato come si deve e canta convinto.
« Abbiamo dei pezzi nuovi da farvi ascoltare »: Qualche kilo da buttare giù, Amico pazzo, Il primo volo, Da dannato, ed è già più che mai chiaro che qualcosa è cambiato. Il percorso portato avanti negli ultimi anni ha fatto guadagnare alla band un livello di maturità convinta che si esprime più che mai nel nuovo modo di stare sul palco: l’approccio live di Gulino e soci è più bilanciato e la potenza che da sempre li contraddistingue, è ora perfettamente equilibrata da una delicatezza notevole.
Anche l’interazione con il pubblico è più minimale: Giovanni si dice felice di suonare in quello che per loro è un piccolo tempio poi chiede la mano alzata di tutti i “terroni” presenti in sala che ovviamente rispondono numerosi e orgogliosi.
All’energica + D1H segue la malinconica Cenere, uno dei vecchi brani più amati, cantata in coro dal pubblico ad occhi chiusi. Un pizzico di te e Un amore Bonsai, e la riflessione sul sentimento amoroso continua, parte lenta e poi esplode, grazie alla chitarra del sempre impeccabile Carmelo Pipitone che poi diventa seconda voce per « uso un mezzo morbido e profumato per uno scopo fisiologico » (La calligrafia di Pietro), più che una canzone, un momento di respiro a pieni polmoni, un po’ insensato, un po’ incazzato.
Tocca a Cromatica, brano tratto da Carne con gli occhi, prezioso featuring con Lucio Dalla registrato poco prima della sua scomparsa, e anche le luci in sala si alternano, quasi a seguire la storia d’amore colorata raccontata dal testo.
La temperatura è altissima, le gocce di sudore sulla fronte non si possono contare, ma si continua eccome, passando dalla sanremese Dispari alla rabbiosa e delirante Rock + Roipnoll.
Il momento più intenso rimane senza dubbio quello che gli affezionati della band, frequentatori assidui dei loro live, ritrovano più o meno sempre uguale: Post. Il crescendo misurato e teso che porta all’esplosione del “io non ho sentimenti, solo sensazioni” che si ripete ossessivo e uguale a se stesso quasi a ipnotizzare. La frase compare anche sulle magliette vendute al banchetto del merchandising, ed è davvero quasi un motto, allo stesso tempo mea culpa e rivendicazione orgogliosa.
Si prosegue con l’ultima manciata di canzoni: bicchieri alzati e salti a piedi uniti per Divino dato che all’alcol non si resiste, mani in aria su Camerieri. Dopo una breve uscita di scena, il concerto riprende e si chiude con Coincidenze: il respiro è affannoso ma Milano, ormai città acquisita e casa, va ringraziata. Poi cappello, giacca in spalla e via.
I Marta sui Tubi, oggi più che mai, sono una band consapevole. Si potrebbe pensare che abbiano perso qualcosa per strada ma in realtà, prestando attenzione, si capisce bene che quel qualcosa l’hanno guadagnato in lucidità e sicurezza, e che nell’evoluzione hanno saputo mantenersi sempre incredibilmente fedeli a se stessi

SETLIST:
1. Qualche kilo da buttare giù
2. Amico pazzo
3. Il primo volo
4. Spina lenta
5. Da Dannato
6. +D1H (Più di un’ora)
7. Cenere
8. Un pizzico di te
9. Amore Bonsai
10. La calligrafia di Pietro
11. Cromatica
12. Dispari
13. Il delta del poi
14.  Rock + Roipnoll
15. Post
16. Divino
17. Camerieri
18. Vorrei
19. Niente in cambio
20. Dio come sta?
21. La spesa
22. Coincidenze

Report Laura Antonioli, Foto Francesca Di Vaio