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Laura Antonioli

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Mi piace la musica, anche quella brutta. Ogni tanto ne scrivo.

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Si può esser artiste donne (e quindi minoranza) anche senza fare troppi proclami e ribadirlo ogni volta. Basta portare sul palco e mettere nella propria arte tutta la femminilità di cui si è capaci. Angel Olsen lo fa.

Fasciata in una tutina gessata, zatteroni e capelli raccolti, sale sul palco di una Salumeria Della Musica sold out. Viste le temperature, la stagione dei concerti al chiuso dovrebbe essere finita. Ma per una delle due sole date nel nostro paese della cantautrice di St. Louis (dopo quella al Covo di Bologna) ci si sacrifica felici. Angel sale sul palco per cantare se stessa e il suo essere donna. My Woman, il suo ultimo lavoro è uscito a fine 2016 per Jagjaguwar, segnandone la consacrazione definitiva.

Partenza soft con Heart Shaped Face, Angel sorride ai fotografi in prima fila, spensierata e ammiccante. La sua voce perfetta e l’altrettanto perfetta band che l’accompagna da inizio a un’ora e mezza di live intenso e pregno di autenticità. Fare i musicisti è un lavoro vero, non un passatempo, e le star internazionali che ci graziano della loro presenza nel nostro Paese ce lo ricordano come si deve.

I brani di My Woman ci sono quasi tutti (Shut up kiss me, Sister, Not Gonna Kill You) e si alternano con qualche canzone del precedente Burn Your Fire for No Witness (Unfucktheworld, Windows). Classe da vendere, tecnica consolidata e una presenza unica: non serve altro per garantire un live d’impatto.

Parte della stampa in questi anni ha deciso per lei che dovesse essere un cantautrice folk depressa ed eccessivamente introspettiva, una donna triste e complessata. Angel ha risposto con un disco che l’ha portata ad avvicinarsi al rock classico con qualche virata pop. Sul palco tutte questi elementi si mischiano con disarmante naturalezza.

Fa caldo, troppo caldo, ma nessuna delle persone in sala vorrebbe andarsene. Those Were the Days, Woman e una versione nuda e cruda di Acrobat (contenuta nell’ep di debutto) aprono la terza e ultima parte della serata. Angel chiede se qualcuno ha una casa con piscina in cui ci si possa tuffare tutti assieme di li a poco. Sarebbe bello, come bello è stato poter vedere una cantautrice come lei spogliarsi, metaforicamente parlando, e regalare al pubblico la sua essenza più profonda. Ma con leggerezza e disinvoltura.

In apertura, il set “breve ma dolce” dell’australiano Alex Cameron. Tra elettronica anni ’80 e pop glitterato, il suo alter ego è un entertainer fallito che si muove goffo su un sottofondo di sax e percussioni, e sogna di essere Marlon Brando. L’obbiettivo di Cameron è quello di esplorare il fallimento in musica. Il suo primo lavoro, Jumping The Shark è stato ristampato nel 2016 visto che tre anni prima nessuno l’aveva ascoltato.

Un personaggio che merita di essere scoperto, dal vivo come su disco. Sul finale dedica The Comeback a Angel Olsen che ha scelto di portarlo con lei in questo tour europeo.

Da parte del pubblico pagante (e sudato) , eterna gratitudine a entrambi, e tanti applausi.

Il mercoledì elettronico sotto il tendone del Magnolia si apre puntuale con il set di L I M. I presenti sono ancora pochi, chi ha pensato di arrivare giusto in tempo per il live principale, ha decisamente commesso un errore.
L I M è il progetto solista di Sofia Gallotti, altra metà del duo milanese Iori’s Eyes, e il suo EP di debutto Comet (uscito per La Tempesta International) è un piccolo gioiello. Un’elettronica colma di grazia, la sua, nella quale si mescolano intimità e freddezza, buio e luce.
Sul palco Sofia è una statuetta di porcellana o, se si preferisce, una creatura aliena. La sua voce fluida riempie l’aria e traccia il solco in cui vanno ad inserirsi suoni che oscillano, synth avvolgenti e beat suggestivi. Un’estetica sonora curata nei minimi dettagli che sul palco si anima, arricchita da una presenza discreta e allo steso tempo catalizzante.
Il live di L I M è breve ma intenso e spiana nella maniera migliore la strada a quello successivo che si inserisce in piena soluzione di continuità nel mood della serata.

William Doyle, meglio conosciuto come East India Youth, fa il suo ingresso in scena. Inglese, classe ’91, il ragazzo è un piccolo prodigio e lo si capisce vedendolo esibirsi. Outfit da cerimonia e basso in mano, a voler ben guardare potrebbe dare segni di schizofrenia e invece no perché sa unire anime diverse in maniera perfetta.
La sua è una musica contaminata, in cui generi differenti vengono manipolati con maestria. Dal synt-pop alla psichedelia, con ripetute incursioni che arrivano dritte dai gloriosi anni Ottanta e iniziano ad introdurre il cambio di atmosfera e far muovere i fianchi. Il set di Doyle ha di certo saputo accendere in chi non lo conosceva una certa curiosità e si è meritato una menzione speciale.

L’ora e giunta e SOHN è pronto a rapire la sala che nel frattempo si è riempita. Nel pubblico si sorgono volti noti di colleghi musicisti mentre i fan più accaniti zittiscono chi è ancora dedito al cazzeggio. SOHN rientra nella cerchia dei personaggi che ci si sceglie con cura: noto ma non troppo, di facile ascolto ma non solo, incasellabile ma non sempre.
Christopher Michael Taylor nasce a Londra e poi si sposta saggiamente nella decisamente meno musicalmente sovraffollata Vienna per studiarne la scena elettronica e mettere le radici del suo progetto musicale. Ora di base a Los Angeles, SOHN presenta il nuovo lavoro Rennen, uscito a gennaio per la 4AD a tre anni di distanza dell’osannato esordio Tremors.
Quello che offre sul palco è uno spettacolo vero e proprio in cui splendidi giochi di luce costituiscono il valore aggiunto senza il quale lo show non sarebbe lo stesso. Ciò che più colpisce è la perfezione tecnica: una voce impeccabile e un’eleganza totale (che va ben oltre lo stilosissimo cappello nero).
La scaletta mischia brani dei due lavori e mostra come l’evidente tocco pop riesca a non sfociare mai nel mainstream. Ci si muove e si balla ma l’effetto clubbing non arriva mai e il tipo di ascolto del pubblico rimane in qualche modo anche cerebrale.
Tra echi di trip hop e downtempo, il live scorre intenso e si passa da pezzi come The Wheel e Artifice all’incanto intimista di Signal e Tempest con totale nonchalance. Hard Liquor è la chiusura perfetta di un live che lascia ancora la voglia, e infatti si riprende dopo una standing ovation con il bis: Conrad è il finale definitivo. Una serata perfetta: tre artisti, tre facce dell’elettronica migliore, un concerto a cui ripensare.


SETLIST

Tempest

The Chase

Proof

Signal

Bloodflows

Dead Wrong

The Wheel

Artifice

Paralysed

Harbour

Falling

Lessons

Hard Liquor

 

Rennen

Tremors

Conrad

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La confusione regna davanti al Fabrique, a pochi minuti dall’inizio della data milanese dei The Lumineers. Tra code chilometriche per il ritiro, casse chiuse e fan in cerca di biglietti, si avverte il clima da sold out. Dopo gli show che hanno portato la band nel nostro Paese nel periodo estivo,  Wesley Schultz e compagni, tornano ad esibirsi dal vivo con i brani del nuovo lavoro Cleopatra.

All’interno la temperatura è infernale ed è sovraffollata persino la tribuna stampa. In tutta questa agitazione, i membri della band statunitense fanno il loro ingresso sul palco con l’eleganza e lo stile che li contraddistingue, assieme ai musicisti aggiunti per i live. Si parte con la doppietta Sleep on The Floor e Ophelia, per arrivare quasi immediatamente alla hit Ho Hey che, neanche a dirlo, scalda la sala che in realtà era già dal primo minuto. Ed è su questo brano, al quale la band deve la totalità del suo successo fuori patria, che il frontman chiede al pubblico di fare l’ultimo video e poi riporre i cellulari in tasca per godersi il concerto.

Dal racconto in prospettiva femminile di Cleopatra, alla dedica alla donna che ha sposato (Dead Sea), la voce di Schultz è la costante che esprime tutta la cifra stilistica della band. Delicati, intensi, distaccati il giusto senza perdere in impatto emotivo.
Il polistrumentista Jeremiah Fraites e la violoncellista Neyla Pekarek, danno il loro contributo fondamentale nel creare un live imbastito con grazia, la stessa grazia con cui, alla fine di ogni canzone, Schultz si toglie il cappello per ringraziare il suo pubblico.
C’è spazio anche per l’omaggio al dio laico a cui tutte le band del genere guardano, ossia Bob Dylan, con una versione davvero notevole di  Subterranean Homesick Blues. Non mancano i momenti più tranquilli, durante i quali i più cadono nella tentazione di prendere di nuovo in mano lo smartphone per fare video o inviare spezzoni di registrazione a chi, purtroppo per lui, non è presente.
Darlene viene eseguita dal gruppo in versione acustica e senza microfoni per ricordare i tempi ormai lontanissimi in cui sostituta dei palchi giganti era la strada, con il busking che sembrava destinato a non evolvere mai.
Sulla coinvolgente Big Parade esplodono i coriandoli (e definitivamente l’entusiasmo) ma la serata non è del tutto finita. Si torna per il bis, con tanto di brano mai inciso (Long Way From Home), fino ad arrivare ai saluti. I musicisti si abbracciano e ringraziano tra di loro perché l’alchimia che li unisce è quella fondamentale e va celebrata. Da li poi si può ringraziare il pubblico che a sua volta ringrazia e si incammina senza smettere di saltellare.

SETLIST

Sleep On The Floor
Ophelia
Flowers In Your Hair
Ho Hey
Cleopatra
Cassy Girl
Dead Sea
Charlie Boy
Darlene
Subterranean Homesick Blues (Bob Dylan)
Slow It Down
Submarines
Gun Song
Angela
Big Parade
In The Light
My Eyes

Long way from home
Scotland
Stubborn love

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I Wilco decidono di aprire il loro concerto milanese sul palco del Fabrique, omaggiando le ceneri delle bandiere americane, viste le circostanze (Ashes of American Flags). Cappello da cowboy, maglietta a righe, giubbino di jeans e pancia, Jeff Tweedy come sempre ha l’aria dell’americano medio, uno di quelli che alle recenti elezioni ha combinato il pasticciaccio che condizionerà i destini del mondo intero nei prossimi quattro anni. E invece è, al contrario, un essere tutt’altro che ordinario, e chi riempie la sala stasera lo sa bene e non a caso urla il suo nome già dall’inizio.

Ho sempre avuto paura di essere un normale ragazzo americano, canta in Normal American Kids, e invece è riuscito a benissimo a sfuggire a tale maledizione. Un’ apertura scarna e acustica, come lo è l’ultimo straordinario lavoro Schmilco, appena sporcata dai suoni elettrici dei fedeli compagni di band.
Inutile piangersi addosso (Cry All Day) in un momento come questo, Jeff è qui per rassicurarci con tutto il fare bonario di cui è capace. Dice che andrà tutto bene, We’re gonna be alright, che siamo in lutto ma assieme avremo la forza per elaborarlo perché siamo e saremo sempre più di loro, e così la bellezza, che non scomparirà.
Lui lo dice e tu stavolta ci credi sul serio. Quello che sorprende sempre, nonostante l’abitudine, è l’estrema naturalezza con cui in più di vent’anni, i cinque americani  riescono a fare tutto quello che fanno, sia su disco che dal vivo.
Il palco è un bosco e i Wilco suonano tra le fronde per due ore, con una scaletta che è un’ulteriore dimostrazione di intelligenza. Ai momenti più intimi e puliti (Misunderstood, Someone to Lose) si alternano le sperimentazioni di brani quali Art of AlmostI Am Trying to Break Your Heart, che permettono anche al batterista Glenn Kotche e al formidabile Nels Cline di mostrare tutta la loro maestria.
La verità è che, anche se poteva sembrare che con il precedente lavoro Star Wars la band di Chicago avesse avuto una piccola battuta d’arresto, non è mai stato così e i ragazzacci sono più forti di prima.
Dopo i classici Via Chicago e Impossible Germany arriva il momento Jesus, etc. a far sognare la sala e a ricordare che nel nostro mondo esistono brutture come Trump ma anche cose belle e perfette come quel disco che è Yankee Hotel Foxtrot.
Si torna sull’attualità, Tweedy spiega che ora più che mai in America la gente si guarda in faccia chiedendosi che fare e questo in qualche modo è un dato positivo. Poi si riprende a suonare ancora per un po’, con tanto di doppio bis e la platea che non smette di partecipare (canticchiando Spiders). Cline passa alla slide, si torna ai ritmi soft e si conclude al meglio con un’ultima ondata di calore.
I Wilco sono più che una certezza, e se Jeff Tweedy era qui con l’intento di rassicurarci ci è riuscito eccome. Si torna a casa carichi di energia positiva. Certi che, per quando le cose siano difficili, fino a che esiste chi come loro prosegue dritto su un cammino fatto di coerenza e bellezza e ha per fortuna deciso di condividerlo, saremo in qualche modo salvi.

SETLIST
Ashes of American Flags
Normal American Kids
If I Ever Was A Child
Cry All Day
I Am Trying to Break Your Heart
Art of Almost
Pickled Ginger
Misunderstood
Someone to Lose
Via Chicago
Reservations
Impossible Germany
Jesus, etc.
Locator
We Aren’t The World
Box Full Of Letters
Heavy Metal Drummer
I’m The Man Who Loves You
Hummingbird
The Late Greats

Random Name Generator
Spiders (Kidsmoke)

California Stars
War on War
Shot In The Arm

 

Per quanto possa sembrare una via bizzarra, può capitare che per riappacificarsi con la purezza naïf del rock si possa anche passare dalle strade tortuose dell’elettronica. Quella in questione che compie il miracolo appartiene ai Suuns, band di Montreal che con il recente Hold/Still giunge al suo terzo album in studio (da considerare a parte c’è il disco in collaborazione con i Jerusalem in My Heart dell’anno scorso). I Suuns sono una band ibrida e la loro elettronica è ben lontana dall’essere fredda e impersonale proprio perché suonata con tutti gli strumenti del rock.
In un groviglio di cavi e pedaliere, i quattro prendono posto sul palchetto del Biko che a malapena li contiene. Si alzano le luci, a illuminare il loro nome scritto a caratteri gonfiabili sullo sfondo, e si parte.
Ben Shemie è il leader carismatico che riesce a catalizzare gli sguardi dei presenti, dal primo all’ultimo. Liam O’Neill alla batteria, Max Henry al basso e synth e Joseph Yarmush alla seconda chitarra fanno altrettanto.
Il loro è un approccio pienamente fisico che non può non chiamare il totale coinvolgimento del pubblico (compreso il bambino in prima fila che non smette di far ondeggiare la testa). Non serve setlist, non si parla di canzoni ma di un flusso unico e ininterrotto: suono che prima sfiora poi assorbe fino a fagocitare totalmente.
La voce di Shemie è il filo rosso che lega i vari cambi d’atmosfera sonora: aliena e in uno stato di tensione perenne, grazie alla ripetizione di poche e precise parole diventa essa stessa uno strumento, parte integrante del rumore. Persino la chitarra a un certo viene cambiata e diventa trasparente come se vedere gli strumenti non servisse.
Eppure nel buio, si riesce a scorgere tutti: Il corpo di Shemie, si muove sinuoso, il batterista picchia forte e senza sosta, il tastierista guarda il muro e gira su se stesso, Yarmush ha il volto completamente coperto dai lunghi capelli. Belli anche da vedere, insomma e, cosa più importante, tutti musicisti non improvvisati.
E’ come se, prendendo in prestito i passaggi di stato, durante il live dei Suuns si riesca a evitare lo stato liquido preferendo la sublimazione immediata, nonostante il genere che fanno lo richiederebbe.
Uno degli apici si ha durante l’esecuzione di Resistence, uno dei brani più emblematici dell’ultimo lavoro che condensa a pieno l’essenza della band: minimale, categorica, futuristica.
Il continuo avvicinare le chitarre agli amplificatori non è un vezzo ma un gesto necessario per creare quei suoni distorti per loro fondamentali. Instument, Translate e 2020 (dal secondo lavoro Images Du Futur) sono solo alcune delle tappe che il percorso di tenebre pulsanti che la band canadese regala sul palco.
Escono e poi rientrano per il bis, salutano e ringraziano tra i fischi (di approvazione). Alla prossima.

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Il comunicato che annuncia il concerto di Lisa Hannigan promette uno show speciale e intimo.
Nella sala del Fabrique sono state messe, su richiesta della stessa cantautrice, file di poltrone, per creare un ambiente più ordinato e meno dispersivo. Chi è qui conosce chi sta per salire sul palco ed è già nel mood.
Lisa presenta il suo terzo lavoro, At Swim, prodotto da Aaron Dessner dei The National. Un disco che è l’ennesima prova riuscita del suo percorso musicale solista, iniziato dopo la fine della simbiosi di vita che per anni l’ha legata a Damien Rice, l’uomo che sembrava essere, anche artisticamente, la sua anima gemella.

A portare silenzio e raccoglimento ci pensa prima di lei Heather Woods Broderick (sorella del polistrumentista Peter) che si esibisce da sola in una manciata di suoi brani prima alla chitarra elettrica poi alla tastiera. Minimale, rigorosa e discreta, saluta dicendo che tornerà sul palco per suonare con la band.
Ed ecco arrivare la protagonista, assieme ai suoi tre compagni (batteria, contrabbaso, tastiere): l’impianto è in realtà jazzistico anche se le definizioni  vogliono la Hannigan cantautrice folk. A voler ben vedere avrebbe potuto infatti esibirsi senza problemi al Blue Note, anche e soprattutto per la qualità tecnica che lei e i suoi musicisti garantiscono in scena.
Dopo Little Bird in solo, la scaletta prevede un’alternarsi di pezzi dai tre lavori che potrebbero benissimo sembrare lo stesso, per valore e coerenza. Pistachio, O Sleep, Prayer for The Dying, in un crescendo di grazia che ipnotizza il pubblico.

Lisa è incantevole e talmente gentile che ad ogni cambio di strumento (alterna chitarra e mandolino e ukulele) ringrazia il ragazzo dello staff che glielo porta. Dopo aver cantato il nuovo singolo, spiega che per girare il video ha dovuto imparare a cantare la canzone al contrario e ne fa sentire uno spezzone al pubblico. I sorrisi sono accennati, la voce leggerissima, quando parla le mani fluttuano come fossero ali di farfalla. E i presenti di fronte a una donna capace di diventare musa si innamorano, proprio come fece Damien, ora è più chiaro il perché.
La seconda parte del set è, se possibile, ancora più intensa, da Flowers in poi, con le incursioni elettriche di Heather Broderick, perfetta anche come seconda voce (Undertow a due è una perla), e il contrabbasso che diventa un basso. C’è spazio anche per la radiofonica What’ll I do, per la gioia degli spettatori che dopo tanto silenzio possono canticchiare e battere le mani. Lisa ringrazia, dice che passare dall’Italia è sempre delizioso (anche per il cibo), la sala ricambia: deliziosa è lei.

Dopo l’uscita tornano in scena in tre per regalare il coro di Anahorish e adesso davvero non resta che voce nuda a riempire l’atmosfera. A Sail chiude un concerto impeccabile, pulito e delicato.
Da cantautrice, Lisa si era dichiarata persa dopo un periodo un po’ buio e non troppo ispirato, e invece stasera ha dato al suo pubblico la conferma di essersi perfettamente ritrovata.


 

SETLIST

Little Bird
Ora
Pistachio
O Sleep
A Prayer For The Dying
Fall
Snow
Tender
Passanger
Flowers
We The Drowned
Lille
Undertow
Knots
What’ll I Do

Anahorish
Lo
A Sail

Teoricamente si tratta del tour per la presentazione del nuovo disco, Aladdin, colonna sonora del suo visionario film tutto cartapesta e magia, ma con Adam Green non si può mai sapere.
E infatti le canzoni a tema sono poche e del film (proiettato prima dell’inizio del concerto) ci sono lo sfondo del palco, i costumi dei musicisti, il capellino sulla sua testa.
La scelta del piccolo Biko come location è perfetta e sembra di essere nel salotto di casa in cui ti senti libero di bere, dire stronzate e rotolarti sul tappeto.
L’intro Fix My Blues è effettivamente la canzone che apre anche il film, poi subito roba vecchia come Bluebirds, Bunny Ranch e We’re Not Supposed To Be Lovers. Ciao milanesi (e non ciao Milano per una volta) che poi diventa ciao paesanos, tormentone della serata assieme alla riproposizione n volte di Kokomo.
Adam Green è Adam Green, cercare di spiegare cosa questo significhi con altre parole non rende meglio l’idea. Sul palco si agita come il pesciolino disegnato di un cartone animato e batte il cinque al suo pubblico almeno tre volte a canzone. Dopo neanche tre brani si è già buttato per uno stage diving, fa alzare le mani ed esegue canzoni su richiesta. Sorride, e se fosse per lui lo show durerebbe anche sei ore. C’è chi dice che vorrebbe adottarlo, chi essere nella sua testa. Poi a spiegarlo meglio arriva sul palco l’amico del cuore Francesco Mandelli che suona la chitarra in Party Line: una persona meravigliosa, dice, e grandi abbracci sinceri.
Il talento innato dell’enfant prodige un po’ scoppiato, il bambino strano che tutti fissano di cui ha ancora l’espressione, le droghe con cui si è divertito, le esperienze di ogni tipo che da più di quindici anni ormai continuano a nutrirne esistenza, canzoni, quadri e film. I wanna be a hippie / But I forgot how to love, canta da solo con la sua chitarra un attimo prima che torni la band alle sue spalle (Who’s Got The Crack, brano dei Moldy Peaches, primo indimenticabile progetto assieme a Kimya Dawson).
La natura è quella del clown con tutto il bello che il ruolo porta con sé: Adam Green vomita immagini, senza sosta, sputa colori, fa nascere mondi che non esistono partendo dall’unico che abbiamo. Per farlo usa la sua persona come filtro, senza filtri. Tu lo guardi e hai un po’ l’impressione di aver sbagliato tutto nella vita.
Quando su richiesta esegue I Wanna Die e il pubblico all’unisono pronuncia sicuro le parole I want to chose to die / And be buried with a rubik’s cube, sembra perplesso e anche un po’ spaventato da tanta convinzione; non sia mai che qualcuno lo pensi per davvero. Di certo non lui che da tutta e per tutta la vita ha deciso di giocare, con la musica e non solo.
Si prosegue con hit come Friends of Mine, Drugs e la sempre amata Jessica, fino ad arrivare al finale della festa, con il brano che chiude il film, con tanto di balletto (Interested in Music) che sfuma in Dance With Me.
Adam Green è il cazzone che sembra fare tutto a caso e invece no (i concerti possono sembrare una lunga improvvisazione ma la scaletta è seguita alla perfezione). Lo scappato di casa che avrebbe potuto fare una brutta fine e invece no. È il fratellone che ti presta l’appartamento e ti regala la festa un giorno e poi volendo quello dopo e il giorno dopo ancora.
E infatti l’Aladdin tour continua, con la data di questa sera al Covo Club.

Da segnalare l’ottima band che lo accompagna che non un semplice supporto ma un gruppo con vita propria: i Coming Soon. Francesi, in attività da una decina d’anni, talmente bravi che si prendono lo spazio per due loro brani a metà concerto. Psichedelici quanto basta anche loro quindi perfettamente à l’aise nell’accompagnare Green. Dopo il concerto ci hanno promesso che torneranno in Italia, e non sarebbe male.

SETLIST:
Fix My Blues
Bluebirds
Bunny Ranch
Novotel
We’re Not Supposed To Be Lovers
Me From Far Away
Buddy Bradley
Gemstones
Tropical Island
Nature of The Clown
Emily
No Legs
I Wanna Die
Never Lift a Finger
Cigarette Burn Forever
Carolina
Drugs
Morning After Midnight
Jessica
Here I am
Interested In Music
Dance With Me


[Report – Laura Antonioli    Photo – Francesca Di Vaio]

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A pochi mesi dalla data milanese di giugno in cui presentavano il nuovo lavoro Strange Little Birds, I Garbage tornano in Italia. Stavolta la band di Shirley Manson salirà sul palco dell‘Obihall di Firenze mercoledì 2 novembre per la prima data di un tour che vede come opening act gli italiani Giorginess.

Strange Little Birds, sesto album in studio a quattro anni dal precedente Not Your Kind Of People, segna un ritorno verso le sonorità dell’album con cui la band ha esordito ormai vent’anni fa (esordio celebrato con il il 20 Years Queer World Tour del 2015 e una lunga serie di sold out in tutto il mondo).
Per questo disco, come spiega la cantante, “Il principio guida del è stato quello di seguire l’istinto, senza ancorarsi al passato e rendere il tutto il più fresco ed immediato possibile. E’ stato come tornare agli esordi, con il risultato di non dover rendere conto a nessuno”.

A caratterizzare anche questo lavoro, il sound peculiare tra rock, pop ed elettronica, ormai diventato un vero e proprio marchio di fabbrica. Sound che li ha immediatamente distinti in un periodo in cui a dominare era invece il grunge più puro e nel corso degli anni ha portato la band a imporsi nelle classifiche mondiali con più di 12 milioni di dischi venduti.

In apertura, la band di Giorgie D’Eraclea, presenta dal vivo La Giusta Distanza, pubblicato ad aprile dalla toscana Woodworm. Non è la prima volta che i Giorginess si trovano a dividere il palco con grandi nomi internazionali (in precedenza è toccato a The Kooks e Savages), oltre ai numerosi artisti della scena italiana come Tre Allegri Ragazzi Morti, Fast Animals And Slow Kids ed Il Pan Del Diavolo.

Il tour italiano dei Garbage prosegue giovedì 3 novembre al Gran Teatro Geox di Padova.


 

Info spettacolo
Obihall – via Fabrizio De André / Lungarno Aldo Moro – Firenze – www.obihall.it
www.bitconcerti.it 
www.barleyarts.com

Prevendite
Box Office Toscana www.boxofficetoscana.it
BoxOl www.boxol.it
TicketOne www.ticketone.it

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Da sempre fuori dagli schemi, geniale e incredibilmente prolifico, Adam Green torna con il nono lavoro solista della sua carriera. L’artista è finalmente pronto a presentare dal vivo in Italia il suo progetto più complesso e affascinante Aladdin, ovvero la sua personale visione del classico de Le Mille e Una Notte.

Una versione moderna, poetica e colorata in cui è lui stesso il protagonista del racconto. Qui la lampada non è una lampada ma una stampante 3D, il pianeta subisce un cambio di sesso e la sua popolazione ristampa internet in versione analogica.
I 13 brani contenuti nella colonna sonora di Aladdin rimandano alle sonorità psichedeliche datate anni sessanta, mischiando folk funk e psichedelia, come sempre caratterizzati da quel tocco originale e anticonvenzionale che Green dona con naturalezza e maestria.

Aladdin non è il primo film realizzato dall’artista statunitense, da sempre appassionato all’arte visuale (diverse le personali con i suoi dipinti) e al filmmaking. In precedenza c’era stato The Wrong Ferarri, commeddia assurda interamente filmata con un iphone che vedeva protagonisti tra gli altri sempre Macaulay Culkin, Devendra Banhart, Sky Ferreira e l’amico fraterno Francesco mandelli.

In attività da quando aveva soli 17 anni, Adam Green assieme all’altra metà del duo Moldy Peaches (Kimya Dawson), è uno dei membri di spicco della scena newyokese anti folk fine anni ’90. Enyone Else But You, hit colonna sonora del film premio oscar Juno, vale al duo il numero uno della billboard. Da li in poi Green frequenta le classifiche europee a ripetizione, grazie a singoli quali Jessica, Emily e Morning After Midnight.

Aladdin arriva dopo tre anni di gestazione ed è il seguito del penultimo lavoro, datato 2013, realizzato a due mani con l’artista californiana Binki Shapiro.

 


Info: DNA concerti  /  Prevendite Mailticket

27 ottobre 2016 MILANO – BIKO
28 ottobre 2016 BOLOGNA – COVO

 

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Stavolta a decidere di aprire il loro tour dall’Italia sono i The Veils, che scelgono il palco del Serraglio per presentare l’ultimo lavoro Total Depravity. Il quinto disco della band, uscito il 26 agosto, è strabiliante da diversi punti di vista. Composto quasi interamente in una stanza buia e poco aerata dell’East London (poi registrato in più luoghi, tra cui Casa Lynch), è un disco claustrofobico, cupo e disturbante e dal vivo la formazione australiana riesce a renderlo in tutta la sua pienezza.
Si parte con la perfezione totale di Here Comes The Dead e Axoloti ed è subito chiaro che il concerto proseguirà senza la minima sbavatura fino all’ultima canzone. Finn Andrews saluta e ringrazia. Con l’immancabile cappello nero a tesa larga, in scena è una strana creatura a metà tra la versione migliore del David Byrne predicatore allucinato e l’essere più pacato del mondo. La sua voce talmente perfetta da sembrare aliena porta in vita le storie degli stani personaggi che popolano il disco (Low Lays The Devil e Swimming With Crocodiles). Ecco arrivare la prima delle incursioni dei brani tratti da Nux Vomica, secondo album della band, datato 2006: la title track regala il primo vero momento sporco della serata, con la voce di Andrews che si spezza e l’andamento che si fa dapprima sincopato per poi esplodere a più riprese.
Si tratta di una serata speciale, spiega, la prima in cui suoniamo di nuovo assieme dopo un po’ di tempo. L’escalation claustrofobica e strisciante prosegue e trova il primo apice con l’esecuzione di Total Depravity, l’episodio decisamente più new wave di tutto il disco che dal vivo riesce ad essere ancora più disturbato. D’altronde la Depravazione Totale ha a che fare con il vizio che corrompe la natura umana, condizione da cui Andrews sembra oggi più che mai essere affascinato.
C’è spazio per brani più convenzionali (Lodin & Iron, Not Yet) prima della lisergica King of Chrome, racconto nero con protagonista un camionista psicopatico, narrato con il tono di un sermone per comunicarci chissà quale inquietante morale.
Il gruppo esce di scena e poco dopo il frontman rientra da solo, per regalare un momento più intimo con tanto di brano a richiesta dal pubblico che prova ad eseguire nonostante non lo ricordi bene (ero davvero giovane quando l’ho scritto). Recuperati gli altri, ci si avvia verso la conclusione che diventa definitiva con Jesus For The Jugular (sempre da Nux Vomica). Un lampo di luce rossa riempie la stanza, acceca i presenti poi si spegne e il palco è vuoto: degna conclusione di un live allucinato e allo stesso tempo raffinatissimo.
Non sappiamo mai bene cosa andremo a suonare, facciamo una manciata di cose sperando vada per il meglio, aveva detto poco prima di salutare. E per il meglio è andata, decisamente.


 

SETLIST:

Here Come The Dead
Axoloti
Do Your Bones Glow at Night
Low Lays The Devil
Swimming With The Crocodiles
Nux Vomica
House of Spirits
The Pearl
A Bit on The Side
Total Depravity
Lodin & Iron
Not Yet
King of Chrome

The Tide That Left & Never Came Back
In The Nightfall
Advice for Young Mothers to Be
Calliope!
Jesus For The Jugular

Passenger sceglie Milano per la data zero del suo tour mondiale, e Milano gliene è grata. Anche perché si tratta della prima volta con una band al completo in più di dieci anni di attività.
Michael David Rosenberg, già membro della band Passenger, scioltasi dopo un solo disco, della quale ha conservato il nome, ha un lungo e intenso passato da busker. Non solo non ne fa mistero, ma lo condivide con il pubblico che affolla il Fabrique, raccontando aneddoti e storie a riguardo.

Dopo l’apertura con l’ applaudito songwriter originario di Johannesburg Gregory Alan Isakov, la band arriva sul palco. Se non avete avuto abbastanza tempo per imparare i testi delle canzoni non è grave, scherza. Il settimo lavoro Young as the Morning, Old as the Sea è uscito da soli cinque giorni eppure i fan sembrano più che preparati.
Si apre con Everybody’s love e If you go e i cori già iniziano a farsi sentire. Poi subito spazio ad alcune old songs, quelle scritte prima di quella canzone nata sotto una stella più che buona che poi gli ha cambiato la vita. Prima di Let Her Go (che è let her, non let it), spiega, ci sono stati momenti nei quali la vita da artista di strada sembrava destinata a durare davvero per sempre. 27 parla proprio di questo: I write songs that come from the heart I don’t give a fuck if they get into the chart. Dal pensarla cosi ad avere 3.000 persone che cantano a memoria ogni parola in una lingua che non è la loro, di strada ne è passata, eppure non è servito vendere l’anima al diavolo né tanto meno cambiare la propria natura.

La ricetta è semplice: Passenger scrive (davvero con il cuore) testi semplici e delicati dando vita a episodi che di fatto sono assolutamente pop pur essendo in realtà folk. Ed è per questo che anche stasera nessuno smette per un secondo di cantare. L’avere una band alle spalle d’ora in poi gli darà la possibilità di giocare a fare la star, di divertirsi e magari di scrollarsi un po’ di dosso la malinconia che chi canta canzoni tristi in mezzo a una strada si porta per forza addosso. E infatti in scaletta di pezzi più movimentati ce ne sono, e coinvolgono sul serio (l’allegra catarsi di I Hate su tutte).
Ma quello di Passenger rimane un animo più che nobile, la sua è una musica pienamente sentimentale e la lunga introduzione emblematica al brano seguente lo conferma. Trattasi della storia di due persone incontrate in passato: un vecchio signore che aveva programmato una serie di viaggi in Europa da fare con l’adorata moglie e invece si è ritrovato costretto a viaggiare da solo dopo la sua improvvisa scomparsa e una bella sconosciuta che ha pianto davanti a lui le sue pene d’amore. A questi due incontri, fatti in strada mentre suonava in Danimarca, ha dedicato rispettivamente la prima e la seconda parte di Travelling Alone. La esegue solo con la sua chitarra, come ai vecchi tempi, e il silenzio in sala è totale, da lasciare spiazzati.
Si prosegue e ovviamente arriva anche Let Her Go, nemmeno a dirlo, cantata all’unisono, un altro scambio di chiacchiere anche sull’attualità (il mondo non ha affatto bisogno di persone come Donald Trump) Poi è il momento dell’uscita di scena ma a suon di battiti di mani ininterrotti, tutti si rifiutano di accettare la fine.
E infatti lui torna in scena per il bis. Una cover di Losing My Religion, poi Home e infine Holes ed è il momento dei saluti definitivi.

Il passaggio di questo cantautore dotato, autentico e pulito dimostra che in realtà spesso le cose sono più semplici di quanto si pensi. Basta eliminare le sovrastrutture, offrire quello che si ha cercando di farlo nella maniera migliore. Basta sicuramente per essere in pace con se stessi, e non è poco. Se poi le circostanze favorevoli (forse i pianeti allineati?) e un pizzico di fortuna aiutano, allora basta anche per ottenere il riscontro che si merita e, perché no, un po’ di riscatto. Basta per regalare al pubblico pagante una serata da raccontare a qualche amico a cui consigliare caldamente il live di Passenger per la prossima volta in cui ripasserà da qui.


SETLIST:

Somebody’s Love
If you Go
Life’s For The Living
When We Were Young
27
Anywhere
Everything
Travelling Alone
I Hate
Young As The Morning
Beautiful Birds
Let her Go
Losing My Religion (R.E.M)
Scare Away The Dark

Home
Holes

 

[Report: Laura Antonioli  –  Photo: Francesca Di Vaio]

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Si intitola COMPLETAMENTE SOLD OUT il nuovo disco della band romana e uscirà il 21 ottobre per Carosello Records.

Ad anticipare il disco, negli scorsi giorni era stato lanciato il singolo ufficiale Completamente, già disponibile in digital download e sulle varie piattaforme streaming. Queste le parole usate da Tommaso Paradiso per spiegare com’è nato il tutto:

«C’è un momento nella notte, c’è un preciso momento nella notte che dura solo pochi minuti, in cui provo il benessere più totale, quello definitivo. Ecco, ti voglio raccontare proprio quegli attimi, quel sentimento, la felicità. Il corpo, il cuore, i sensi, la mente sono contemporaneamente attraversati da calore, respiro, ricordi, proiezioni, volti e nomi, odori, parole, suoni, brividi, le persone che ami e che hai amato tutte lì davanti, e tu, tu al centro di un sistema d’amore universale. È una specie di nirvana laico, umano, profano fatto di vita, sogni, sigarette e qualche bicchiere. E la musica, sì, la musica. E lei, sì, lei. C’è sempre una lei.  E la disperazione, a volte, è così bella.

Il COMPLETAMENTE TOUR vedrà Paradiso e soci (Marco Antonio Musella e Marco Primavera) impegnati in una serie di live a partire dal mese di novembre. Queste le date finora annunciate:

 

5 novembre – Estragon Club, BOLOGNA

11 novembre – New Age Club, RONCADE (TV)

17 novembre – Alcatraz,  MILANO

19 novembre – Auditorium Flog, FIRENZE

25 novembre – Duel Beat, POZZUOLI (NA)

26 novembre – Atlantico, ROMA

2 dicembre – Hiroshima Mon Amour, TORINO

3 dicembre – Urban, PERUGIA